Il lascito di Mani Pulite, quella sete di rivalsa e il populismo giudiziario

Sono passati trent’anni dal giorno (17 febbraio 1992) in cui venne arrestato Mario Chiesa. Si staccò allora la slavina che avrebbe travolto e seppellito la Prima Repubblica, lasciando sul terreno tramortiti, ma purtroppo, anche morti veri. Accolta da un tripudio generale, l’operazione giudiziaria «Mani pulite» indusse a sperare che fosse venuto il tempo perché prosperasse la «buona politica». Abbiamo atteso per trent’anni che la fausta profezia divenisse realtà. Inutilmente. Non è scomparsa la piaga della corruzione. Non è mai andata a regime la promessa salvifica della «democrazia dell’alternanza». Siamo invece a un passo dalla resurrezione della «democrazia del proporzionale». Con una differenza, di non poco conto, rispetto alla Prima Repubblica. Non ci sono più i partiti di una volta, tanto meno i politici di una volta.

Allora ci si illuse che la slavina di Tangentopoli seppellisse la cattiva politica. Abbiamo col tempo scoperto che aveva invece seppellito indistintamente cattiva e buona politica. Più che un sentimento di giustizia, a travolgere il Palazzo fu «un tumultuoso senso di rivalsa nei confronti dei potenti», un torbido sentimento di compiacimento nel vedere i politici finire in manette, una sinistra soddisfazione nell’assistere in diretta al balbettio impacciato di ministri e leader di partito, schiacciati sotto il peso degli illeciti commessi. Moriva allora la politica. Venne il tempo dell’antipolitica. Confidammo che, codice penale in mano, i magistrati riuscissero a fare giustizia. Se giustizia ci fu, furono create le condizioni anche di una nuova creatura politica: il populismo giudiziario. Da Forza Italia alla Lega, dalla Rete di Leoluca Orlando ai Girotondini di Pancho Pardi, cominciò una gara a sparare sui politici.

«Partito» divenne un nome impronunciabile. Non ci si accorse che in tal modo si scavava la fossa anche alla politica. Il Vaffa di Grillo non è vero che sia figlio di nessuno. È il figlio adulto di quella stagione. Ne segna l’acme e ne rivela al contempo l’inconcludenza, come dimostra il nulla di fatto cui porta l’affossamento della politica. Il cantiere della Seconda Repubblica, mai terminato, chiude i battenti senza aver terminato la costruzione della progettata «democrazia dell’alternanza». Non va preso troppo sul serio il persistente richiamo che destra e sinistra fanno del bipolarismo come la via maestra che porta alla resurrezione della politica italiana. Entrambi, nascondono che stanno saltando le condizioni per il suo rilancio. Centrodestra e centrosinistra sono ormai flatus voci. Sono parole cui non corrisponde alcun contenuto. I due poli si stanno letteralmente sfarinando. D’altro canto, che partner possono essere di «un campo largo della sinistra» i 5 Stelle che schierano insieme un campione del trasformismo come Di Maio, un democristiano con la pochette come Conte, un anti-sistema come Di Battista? Se ne sono accorti anche i vertici del Pd che hanno cominciato a volgere il loro sguardo altrove, senza però saper bene dove fermarlo.

Il franamento più vistoso, tuttavia, è in atto nel centrodestra. Se non fosse che la legge elettorale i partiti incoraggia a coalizzarsi, saremmo già al rompete le righe. La Meloni, incoraggiata dai sondaggi a perseverare sulla strada del sovranismo, è in preda a una sorta di sindrome dell’obesità: guadagna voti, ma perde alleati. Salvini si sta rendendo conto che non può rivaleggiare con lei in populismo se vuole accreditarsi come forza di governo. Berlusconi si ritrova con un partito strabico: una parte guarda a destra, una al centro.

In queste condizioni si sta facendo strada l’idea che per il dopo governo Draghi, le uniche formule di governo praticabili siano una «maggioranza Ursula» (formata cioè da FI, M5S, Pd) o, come qualcuno azzarda, una «grande coalizione» alla tedesca, ossia con Lega e Pd. Come nella Prima Repubblica, più che nella Prima Repubblica.

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