Il missile cinese
e la diffidenza Usa

Che brutta sorpresa! L’inatteso sibilo di un missile ipersonico e lo scoprire all’improvviso che i cinesi hanno capacità nettamente superiori a quelle immaginate finora stanno facendo piombare i militari americani in un incubo. Come nell’ottobre 1957, al tempo del volo inaugurale del famoso primo satellite sovietico, gli americani si stanno rendendo conto di avere un problema: forse hanno sottovalutato il potenziale avversario. Il Pentagono ha appena pubblicato l’annuale Relazione sulle Forze armate cinesi e ha innalzato tutte le previsioni rispetto al 2020. Nel 2027, Pechino avrà a disposizione 700 testate e, nel 2030, mille, il 50% in più rispetto a quanto si riteneva in precedenza.

È vero: mille ogive equivalgono a meno di un terzo di quanto presente oggi nell’arsenale Usa, ma il rischio di una invasione di Taiwan si alza enormemente, si pensa a Washington. «Ci stanno sfidando già a livello regionale – ha osservato il generale Mark Milley – e si preparano a farlo a livello globale». La Cina è al di fuori degli accordi internazionali di controllo degli armamenti, quindi fa quello che vuole. Le basi statunitensi in Giappone possono essere colpite dai missili balistici a medio raggio, mentre quella a Guam può essere raggiunta con missili lanciati dal continente.

La cosiddetta «triade nucleare» cinese - composta da silos a terra, sottomarini e aerei, tutti con missili a testata nucleare – è quasi realtà, pensano al Pentagono. Anche i classici numeri più «convenzionali» incutono paura. La Cina ha a disposizione ben 975mila soldati attivi (il più grande dispiegamento al mondo), ha la terza forza aerea con 2.800 velivoli (dei quali 2.250 da combattimento) e 355 navi e sottomarini utilizzabili per un attacco a largo raggio.

Ufficialmente Pechino, che teme provocazioni nel Mar Cinese Meridionale, risponde che Washington la deve finire di percepire la Cina come una minaccia; l’ammodernamento delle sue Forze armate è solo di carattere difensivo. «L’impero celeste» è pronto a portare avanti una politica «di non essere il primo ad usare» le armi nucleari. Per fortuna i due Paesi hanno una linea di comunicazione in caso di crisi. Ma gli americani non si fidano. La distruzione di un satellite nello spazio nel 2007, i progressi nell’uso dell’intelligenza artificiale e nel settore cibernetico, non dimenticando il missile ipersonico (capace di superare i sensori di difesa), danno da pensare. Alcuni alleati della Casa Bianca nella regione, dopo la nascita dell’Aukus – una specie di «Nato del Pacifico» con Australia, Regno Unito e Stati Uniti – invitano alla prudenza. La Nuova Zelanda, ad esempio, chiede agli occidentali «maturità». Il problema è, però, anche politico, dopo la recente stretta su Hong Kong. Il presidente Xi Jinping, che non esce dalla Cina dallo scoppio della pandemia, è sempre più solo al potere, con tutti i pericoli di una situazione del genere. Perfino il russo Putin, temendo di trovarsi impelagato in conflitti altrui, ha ribadito che la Cina è in grado di risolvere la questione di Taiwan con mezzi pacifici.

Il «momento Sputnik» richiede lo sviluppo di armi di nuova generazione, affermano i militari Usa, messi in seconda fila dai piani Biden di recupero economico. Il risultato finale è solo uno: la corsa agli armamenti in Asia-Pacifico sta per mettere il turbo, altro che questioni energetico-ambientali.

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