L'Editoriale
Mercoledì 31 Dicembre 2025
Il mondo (e l’America) stravolto da Trump
MONDO. Sul piano internazionale nel 2025 ci siamo ritrovati sulle «montagne russe». L’anno ci ha consegnato a nuove incertezze, è stato dominato dalle quotidiane iniziative del presidente Trump e segnato, per noi occidentali, soprattutto dai conflitti irrisolti in Medio Oriente e in Ucraina.
Malgrado le roboanti dichiarazioni di potenza del suo leader, gli Usa sono attraversati da una profonda divisione che assume a volte i caratteri di una strisciante guerra civile, tanto da spingere il presidente lo scorso settembre a chiamare i generali del Pentagono alla guerra contro un «nemico interno», intendendo criminalità e immigrazione. È servita una decisione della Corte Suprema del 23 dicembre scorso per ribadire che l’uso dell’esercito o della Guardia nazionale per compiti di polizia interna è eccezionale e richiede una base legale esplicita. Il Paese è stato inoltre profondamente scosso dall’assassinio del leader Maga, Charlie Kirk, e da una campagna di «deportazione» di immigrati latino-americani intenzionalmente amplificata da alcuni media. L’attivismo bulimico del presidente si è declinato più clamorosamente nell’imporre dazi spropositati in ogni direzione geografica per forzare negoziati favorevoli agli Stati Uniti e in raid militari più o meno prolungati in Iran, Siria, Yemen, in Nigeria, nei Caraibi e nell’Oceano Pacifico orientale. Le sue iniziative di pace nei casi della guerra in Ucraina e a Gaza – rispondenti sempre a precisi interessi, ma pur sempre lodevoli – per il momento non si sono tradotte in risultati decisivi.
La Cina, una «calamita»
Tutto ciò ha provocato ansia e incertezza negli alleati tradizionali al di là dell’Atlantico e in Asia, costringendoli spesso a sottomettersi e a far buon viso a cattivo gioco e, soprattutto, a rivedere i parametri fondamentali del loro posizionamento internazionale alla luce del venire meno della certezza dell’alleanza americana. Chi non ha esitato a opporsi senza timori alle spinte economiche e geopolitiche assertive americane è stata la Cina, grazie ai suoi investimenti decennali che le fanno ormai detenere più di un terzo del valore aggiunto della manifattura mondiale. Le sue restrizioni sulle esportazioni di terre rare e la forte dipendenza americana nell’elettronica, nel settore farmaceutico, del fotovoltaico e nell’esportazione di soia nel Paese asiatico hanno costretto l’Amministrazione americana a una «ritirata strategica». Xi Jinping esce dal 2025 con una statura economica e geopolitica rafforzata che rende la Cina sempre di più una «calamita» verso la quale orbita un numero crescente di Paesi del continente africano, in Asia e persino in America Latina dove Stati come Brasile, Perù, Cile, Argentina contano su Pechino quale destinazione principale per le esportazioni, soprattutto di risorse naturali. E il nostro continente che bilancio deve fare per il suo 2025? Forse l’Europa è il primo nemico di se stessa.
I Paesi maggiormente rilevanti hanno visto un complessivo indebolimento delle proprie classi dirigenti (Francia, Germania, Polonia, Olanda, Gran Bretagna) – con la significativa eccezione dell’Italia – mentre l’Unione europea non ha saputo ergersi a interlocutore decisivo nel conflitto russo-ucraino malgrado il supporto economico e umanitario sostanziale nei confronti di Kiev. Analogamente l’Europa non ha avuto alcun ruolo nell’altro maggiore conflitto armato che ha visto contrapposti lo Stato di Israele e Hamas a Gaza. Anche nel negoziato sui dazi, con il presidente americano siamo passati dalla demonizzazione del leader Usa all’asservimento e accettazione dei suoi diktat.
L’allineamento Putin-Trump
Molto preoccupante è l’allineamento di Putin e Trump sull’idea di minare fatalmente l’Ue come struttura sovranazionale contraria ai loro interessi. Ma da dove viene questa irrilevanza europea che trova forse una sola importante eccezione nella politica commerciale? La tecnocrazia, che ha un ruolo preponderante in Europa, tende per sua natura e indole a non avere alcun legame politico con i territori e impone modelli astratti e obiettivi non in linea con una realtà in rapido cambiamento.
Tutto ciò, insieme a fatali ritardi decisionali, ha provocato il progressivo indebolimento del potere di attrazione delle istituzioni europee presso le opinioni pubbliche che le considerano vessatorie e impositive e in molti casi nelle urne si consegnano a movimenti populisti-sovranisti. Ed è ancora ulteriormente allarmante constatare che la maggioranza assoluta degli europei non va più a votare. Si tratta di un segnale di profonda sfiducia nella democrazia e nella politica che non riesce a incidere nei processi reali dell’Ue e nelle rilevanti decisioni per milioni di cittadini. Sembra indifferibile una rifondazione pragmatica, radicata negli interessi effettivi sul piano internazionale e più sensibile alle domande che provengono dai territori.
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