Il triste ritorno della legge del più forte

MONDO. Tra gli effetti dei dazi imposti da Trump non vi sono solo pesantissime ricadute nei conti economici dei singoli Paesi e l’intensificarsi di tensioni sovraniste, ma anche il minaccioso ritorno di una vecchia teoria economico-politica: il mercantilismo.

Nato tra il XVI e il XVIII secolo, il mercantilismo si basava su un principio semplice: una nazione si arricchisce se esporta più di quanto importa. Per raggiungere questo risultato deve essere messa in secondo piano la cooperazione tra i Paesi, puntando muscolarmente sulla competizione. Nel secolo XVIII, con la prima rivoluzione industriale e l’affermazione nel mondo occidentale del «capitalismo», che assumeva come linea guida la libera concorrenza e il libero mercato, il protezionismo rivestì un ruolo più marginale.

Nazionalismo e protezionismo ripresero centralità alla fine dell’Ottocento e nella prima metà del secolo scorso, quando rivendicazioni territoriali da un lato e la nascita di regimi dittatoriali dall’altra furono all’origine di due tragiche guerre mondiali. Con la fine della Seconda guerra mondiale, sulla base delle terribili conseguenze che ne erano derivate ripresero vigore i principi della cooperazione tra i popoli, della concorrenza e della libertà totale degli scambi. Su queste basi si giunse alla definizione di un nuovo ordine mondiale realizzato secondo le linee guida tracciate nella Conferenza di Bretton Woods del 1944, che sancì la leadership degli Usa e del dollaro come moneta di riserva, convertibile in oro al prezzo di 35 dollari l’oncia. Il primo attacco all’accordo di Bretton Woods fu portato dal presidente americano Nixon il quale, di fronte a una richiesta del presidente francese De Gaulle di convertire una sua consistente quantità di dollari in oro dichiarò «unilateralmente» l’inconvertibilità del dollaro.

Quello che si propone oggi di fare Trump è smantellare completamente l’impianto programmatico di quell’accordo, togliendo poteri a tutti gli organismi che erano stati individuati quali garanti e attori di quell’unione d’intenti (Fmi, Banca Mondiale, Onu, tribunali internazionali, ecc.).

Krugman sosteneva che, in particolari situazioni, taluni interventi statali di «protezione dell’economia» possono portare ad un’incisiva riduzione della disoccupazione e a una nuova crescita economica. Più di recente, però, in più occasioni ha tenuto a precisare che il ricorso a politiche protezionistiche deve avere obiettivi di breve periodo finalizzati esclusivamente a ridare vigore all’economia di mercato

Sul piano teorico un possibile ispiratore della politica di Trump può, in qualche misura, essere considerato l’economista statunitense Paul Robin Krugman, vincitore del premio Nobel per l’economia nel 2008 per la sua analisi sugli andamenti commerciali. Krugman sosteneva che, in particolari situazioni, taluni interventi statali di «protezione dell’economia» possono portare ad un’incisiva riduzione della disoccupazione e a una nuova crescita economica. Più di recente, però, in più occasioni ha tenuto a precisare che il ricorso a politiche protezionistiche deve avere obiettivi di breve periodo finalizzati esclusivamente a ridare vigore all’economia di mercato. Nulla a che vedere, dunque, con lo «show business imperialista» messo in atto dal presidente Trump. Uno sfavillante show a stelle e strisce cannibalizzato da un unico mattatore: lui! Reso possibile da tante assertive comparse: noi! Quello a cui stiamo assistendo oggi è una dichiarata volontà di realizzare un «mercantilismo di tipo imperialista» che mira a ridefinire in modo strutturale confini territoriali (annessione di Canada e Groenlandia) e relazioni internazionali (accordi bilaterali e non multilaterali) per garantire una posizione di supremazia assoluta agli Stati Uniti. La sua politica estera prefigura un mondo dove prevale la legge del più forte, dove i tradizionali alleati (come nel caso dei Paesi europei) sono tartassati, umiliati, considerati dei parassiti, mentre con molta attenzione e prudenza ci si confronta con i pari grado Russia e Cina. Tutto ciò mentre sono in essere conflitti d’indicibile ferocia come quelli ucraino e medio-orientale verso i quali l’Europa non sa, non può, non riesce o non vuole in alcun modo pronunciarsi con voce netta, autorevole e unitaria.

Il ruolo dell’Europa

Quella invocata dalla storia è forse l’ultima chiamata per i capi di Stato europei. Deve partire subito la costruzione di una «Sovranità» europea partendo dall’eliminazione del diritto di veto e dal graduale trasferimento all’Europa di compiti di comune interesse: difesa interna ed esterna, politica estera, politica fiscale. È giunto il tempo di giocare a carte scoperte.

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