La Cina raccoglie le voci dell’Asia

Per quanto sia tremendo dirlo mentre in Ucraina i soldati e i civili muoiono, questi sono giorni di assestamento. Al fronte si combatte ovunque e la linea si sposta avanti e indietro quasi di ora in ora, di villaggio in villaggio. Un’unica certezza: il martirio di Mariupol’, dove gli irriducibili del Battaglione Azov, da giorni circondati dai russi, hanno deciso di immolarsi in nome del nazionalismo ucraino. I video e le immagini che arrivano dal grande porto del Sud mostrano una città annichilita dai combattimenti casa per casa. Dai sotterranei e dalle cantine spuntano anziani che non sanno quel che succede fuori, malati fuggiti dagli ospedali, feriti scampati per miracolo.

Difficile giudicare l’andamento reale delle operazioni militari. Resiste la sensazione che il giusto sdegno verso l’invasore porti a qualche giudizio affrettato. Si dà per scontato, non si sa bene su quale base, che il Cremlino cercasse la guerra-lampo e che quindi, dopo un mese di battaglie, debba cominciare a sentirsi sconfitto. Ma proviamo a fare un’altra ipotesi: che l’obiettivo della Russia (magari anche solo il piano B) fosse creare un super-Donbass filorusso da Nord a Sud, comprendente le miniere, le industrie pesanti, le maggiori centrali nucleari, i porti, di fatto la spina dorsale delle infrastrutture e dell’economia ucraina. A oggi, i russi non sarebbero troppo lontani dall’obiettivo. Questo spiegherebbe anche perché la capitale Kiev non sia stata mai attaccata, e nemmeno davvero bombardata.

Certo, gli ucraini si battono bene e per i russi il prezzo è alto, muoiono tanti soldati e tanti ufficiali. E il ministro della Difesa Shoigu, dato per scomparso, silurato o dimissionario, si è fatto rivedere a Mosca proprio per chiedere altri soldi per le forze armate. Ma per ora il prezzo, compreso quello delle sanzioni, non è ancora un elemento decisivo nell’equazione putiniana. Lo diventerà, forse, se il conflitto dovesse prolungarsi fino al 9 maggio, giorno della Vittoria sovietica sul nazismo, ogni anno festa nazionale e trionfo ideologico per il Cremlino. Si parla di questa scadenza (e anche in questo caso: chi l’ha detto?) con troppa leggerezza: altre sei-sette settimane di guerra sarebbero un disastro inimmaginabile per l’Ucraina, per la Russia e forse anche per tanti altri Paesi, se le sempre più frequenti previsioni di recessione economica globale (l’ha annunciata, per esempio, Ngozi Okonjo Iweale, direttrice generale dell’Organizzazione mondiale del commercio), con il possibile corollario di una stagione di rivolte nelle parti del mondo meno sviluppate, dovessero purtroppo realizzarsi.

Anche Joe Biden, approdato in Europa e accolto dagli alleati come il leader del mondo libero, alla fin fine ha parlato soprattutto dei problemi a venire. Annunciare l’aumento della produzione di grano e una specie di Piano Marshall per coprire i bisogni europei di gas in caso di interruzione delle forniture russe, come ha fatto il Presidente americano, è stato un brusco richiamo alla realtà. Un eventuale collasso della Russia, obiettivo nemmeno tanto nascosto della politica sanzionatoria, sarebbe tutt’altro che gratis per l’Occidente e soprattutto per l’Europa.

C’è intanto chi prova a premunirsi. Il leader cinese Xi Jinping guarda avanti, nell’interesse della Cina. La guerra in Ucraina da un lato lo compiace come segno di ribellione alle pretese di dominio geopolitico degli Usa, dall’altro lo inquieta per la turbativa che comporta per l’unica stabilità che gli interessa, quella dei commerci e degli affari che tengono in vita la possente macchina produttiva del gigante asiatico. Xi manda il suo ministro degli Esteri in India (primo vero contatto tra i due Paesi dopo gli scontri di frontiera sull’Himalaya del 2020), parla con Yoon Suk-yeol, prossimo presidente della Corea del Sud e litiga con Boris Johnson. Ambisce quindi a raccogliere e rappresentare le inquietudini dell’Asia, che già deve fronteggiare le bizzarrie di Kim Jong Un, il leader della Nord Corea che non smette di testare missili balistici intercontinentali, e non vuole subire altri contraccolpi. C’è quasi metà della popolazione mondiale, in quei colloqui, che non accetta di stare in silenzio mentre altri scuotono le sorti del pianeta.

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