La Costituzione, rischio fratture

Italia. La storia di questi decenni dice che intestarsi le riforme costituzionali, questione che non agita i cuori e le menti degli italiani alle prese con altri problemi, è un esercizio ad alto rischio.

La Bicamerale di D’Alema, che nel ’97-’98 ipotizzava il semipresidenzialismo alla francese, è naufragata per l’opposizione di Berlusconi, mentre i referendum del 2006 (centrodestra) e del 2016 (Renzi) sono stati bocciati dagli elettori. Ora ci prova Giorgia Meloni con parole impegnative («Voglio che il presidenzialismo sia la mia eredità») e se ne intuisce il plusvalore: guidare il processo costituente per riscrivere la seconda parte della Costituzione sarebbe un traguardo significativo per la destra italiana, le cui radici sono esterne ai valori della Carta del ’48. Lo si diceva pure di D’Alema, allora leader del Pds, che attraverso la Bicamerale intendeva anche legittimare una volta per tutte gli ex comunisti come forza di governo.

Considerando i numeri di cui dispone la maggioranza, il progetto della premier va preso sul serio, senza per questo ritenerla la cura migliore e mettendoci pure un certo scetticismo sulla sua realizzazione, almeno per i tempi. Se è vero, stando ai sondaggi, che gran parte degli italiani è sedotta dal presidenzialismo, è pur vero che il modo in cui s’è consumata la sconfitta di Renzi nel 2016, allora premier e segretario del Pd, ha stabilito un prima e un dopo molto netto.

Al di là delle questioni di merito, gli elettori hanno offerto una lezione che si può riassumere così: la Costituzione, che ora compie 75 anni, si può certo migliorare in alcune sue parti, in particolare quelle riguardanti l’organizzazione dello Stato, ma è un compito da svolgere con il più ampio consenso possibile e con la dovuta prudenza, che non è un optional, evitando fratture. S’è avuta così la conferma che il lavoro dei costituenti ha prodotto un patrimonio sentito tuttora come un bene di tutti, da non prendere alla leggera: quella «bussola», definita così dal presidente Mattarella due giorni dopo il rilancio presidenzialista della premier. Materia incandescente da governare con cura, perché la «grande riforma» tocca l’intero assetto ed equilibrio dei poteri, condiziona la vita politica e la sua organizzazione, introduce un nuovo linguaggio pubblico.

In più è in corso l’accelerazione del regionalismo differenziato: la scelta dei tempi vede in parallelo l’iniziativa della Lega e il presidenzialismo, ma la prima riforma prevede la legge ordinaria, la seconda una riforma costituzionale. Il presidenzialismo è da sempre nelle corde della destra e a suo tempo ostile al regionalismo padano, mentre per la Lega l’autonomia differenziata è un ritorno alla casa del padre che nel frattempo se n’è andato, uno strumento per ristabilire un rapporto fiduciario con la base nordista passata con Fratelli d’Italia.

Per ora, in attesa delle regionali in Lombardia, si registra questo paradosso: il partito nato come espressione del Nord conta, nel suo granaio elettorale, la metà dell’alleato-concorrente di Meloni, nato come partito romano. In una fase in cui Mattarella ha di nuovo ricordato la necessità d’impegnarsi per superare la differenza Nord-Sud, il ministro Calderoli, nel riaffermare che l’autonomia è in linea con la Costituzione e che quindi non spacca il Paese, deve vedersela con la protesta di oltre 50 sindaci del Sud, di tutti i partiti, che invece hanno chiesto al Colle di fermare la riforma. A contrastarla non sono solo le opposizioni, compatte su questo, ma par di notare una certa cautela anche nella maggioranza: si tratta di valutare fra l’altro l’impatto sul Mezzogiorno dove i postgrillini di Conte intendono occupare tutti gli spazi della protesta.

I tempi saranno comunque lunghi, così come per il presidenzialismo: ma qui di cosa stiamo parlando? Presidenzialismo non all’americana, piuttosto semipresidenzialismo da Quinta Repubblica francese, quello istituito da De Gaulle fra il ’58 e il ’62, o forse l’elezione diretta del premier dalle tante varianti, comunque meno invadente del presidenzialismo, più in linea con le recenti esperienze italiane, più adatta a coinvolgere le opposizioni e maggiormente rispettosa del Quirinale. C’è, non da oggi, l’idea di curare il paziente Italia semplificando la politica in termini decisionisti e di presunta efficienza dopo che il baricentro del potere dagli anni ’80, e con più vigore con l’arrivo della Seconda Repubblica, s’è spostato sul governo a scapito della centralità del Parlamento. Il rischio è politicizzare tutte le istituzioni, indebolendo il pluralismo, eliminando quel ruolo di garanzia e super partes rappresentato dal Quirinale, che continua a ricevere la più alta fiducia degli italiani proprio per queste sue prerogative costituzionali. Se oggi la crisi della democrazia si misura sulla contrapposizione radicale, sulla frattura amico-nemico, le vicissitudini dei vari presidenzialismi (dall’America di Trump alla Francia dei due estremi, destra e sinistra) dovrebbero spingere ad apprezzare quelle figure di garanzia - quale è attualmente il Capo dello Stato in Italia - in cui tutti possono riconoscersi. I padri costituenti scartarono il presidenzialismo non solo per il «complesso del tiranno» dopo i guasti del fascismo, ma optarono per la Repubblica parlamentare in quanto ritenuta la più idonea a una democrazia consensuale e ad una convivenza civile fra gli opposti. Anche per questo siamo una democrazia matura.

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