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MONDO. Eravamo rimasti al 2% del Pil per le spese militari. Ma al vertice dei ministri degli Esteri della Nato in Turchia si alza l’asticella e il 5% diventa il numero magico.
Il neo ministro degli Esteri tedesco Johan Wadephul sa dove batte il cuore del suo collega americano Marco Rubio e subito si adegua. È il prezzo da pagare per rendere possibile al nuovo cancelliere Friedrich Merz l’udienza alla corte di Trump. Se il capo del governo tedesco arriva alla Casa Bianca con commesse miliardarie per le industrie militari americane gli verrà perdonato il peccato originale dei governi tedeschi. Soprattutto la presunzione del socialdemocratico Gerhard Schröder e di Angela Merkel, cristiana democratica contigua agli interessi della grande industria, delle loro maestranze e del sindacato vicino alla Spd ben rappresentato negli organi di cogestione aziendale. L’ambizione di percorrere una terza via con Russia e Cina e quindi di contribuire alla deindustrializzazione dell’America, questo il capo d’accusa. Quando Trump dice che l’Europa ha giocato sporco con gli Stati Uniti, pensa alla Germania. Sono i tedeschi che pur di vendere automobili negli States hanno manipolato con dolo i dati delle emissioni diesel. Da quel momento il colosso tedesco ha cominciato a vacillare, la guerra di Putin in Ucraina ha fatto il resto e mostrato al mondo intero i suoi piedi di argilla. Adesso con il 5% i tedeschi sperano di recuperare il tempo perduto. Quello che prima avevano osato con l’industria automobilistica, lo ripetono ora con i carri armati.
La nazione che coniugava pace con una ritrovata legittimità morale, dove le armi erano bandite non esiste più. Di questa Germania non c’è ora neanche più il ricordo
Molti dei quasi mille miliardi stanziati a debito finiranno nei bilanci delle multinazionali a stelle e strisce. Sono armamenti che in questo momento non si riesce a procurare sul mercato tedesco. Non per mancanza di nozioni e capacità tecniche ma per il semplice motivo che mancano le strutture per una produzione di massa. È il pegno da versare per tornare ad essere una grande potenza militare. Un prezzo che in Germania si paga volentieri perché ad ottant’anni da un conflitto mondiale rovinoso si rende possibile ad un Paese segnato dal genocidio di ritornare a sognare un futuro militare nell’olimpo dei grandi. La nazione che coniugava pace con una ritrovata legittimità morale, dove le armi erano bandite non esiste più. Di questa Germania non c’è ora neanche più il ricordo. Quando si arriva in città di provincia come Halle, nella Sassonia Anhalt, si viene accolti da grandi schermi dove troneggia Friedrich Merz e la frase: avremo il più grande esercito d’Europa. Nel suo discorso inaugurale al Bundestag, il cancelliere annuncia un ruolo da protagonista in politica estera. Le armi sono il suo biglietto da visita. Ed è paradossale che l’unico a chiedere una contropartita sia il solo Trump. Lo fa alla sua maniera: pagami e ti faccio fare quello che vuoi.
Ma dove sono gli altri europei che fra poco avranno al centro del continente una potenza che già ora si annuncia con il più grande esercito? Keir Starmer e Emmanuel Macron, pur di uscire dall’irrilevanza dove si erano cacciati con l’alleanza dei Volenterosi, chiedono rinforzi. Solo Roma sembra staccarsi dal coro. Il 2% del Pil per la difesa parla da solo. Per un bilancio come quello italiano non si può andare oltre. Ed è questa debolezza italiana a rendere strategico il no al riarmo dei singoli Stati. L’Europa, se deve riarmare, lo può fare solo come Unione. È il solo modo possibile per impedire ai governi nazionali fughe in avanti. Con l’America in ritirata, le asimmetrie fra gli Stati membri dell’Ue portano a tentazioni egemoniche già sperimentate nella crisi finanziaria del 2009. Erano i tempi di «truffatori greci vendete le vostre isole». Adesso sarebbe peggio. Con una potenza militare come i tedeschi sanno fare, tutto sarebbe più tragico, se non si pongono controlli.
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