La giustizia e il peso politico della riforma

La riforma della Giustizia, messa a punto dall’ultimo Consiglio dei ministri, segna un precedente che pesa politicamente: è la prima volta dalla nascita della Seconda Repubblica, cioè dai primi anni ’90, che i termini della questione sono stati ridefiniti in profondità senza il condizionamento ideologico del fattore B, cioè Berlusconi, e con tutto quello che s’era portato dietro. Da sempre il rapporto-confronto con l’universo delle toghe e dintorni è stato un crocevia della discordia, almeno dagli anni ’80, dalla prima stagione di Craxi, in cui le inchieste sulla corruzione culminate poi con Mani pulite hanno messo a tema il rilievo politico delle funzioni della pubblica accusa e il progressivo ampliamento della magistratura penale. Si dice magistratura, in realtà il sottinteso si chiama Procura.

Quindi, da questo punto di vista, la riforma della Guardasigilli Marta Cartabia è, per così dire, laica, sgombra dai lasciti dello tsunami che ha terremotato la Prima Repubblica. Si sapeva, per il suo timbro dirompente e per la sua forza simbolica, che il passaggio di questi giorni sarebbe stato, ancorché prioritario, particolarmente delicato, a rischio rottura, riuscendo comunque là dove altri esecutivi erano caduti, compreso l’ultimo. Ma anche qui c’è una novità: Draghi non è stato sino in fondo il Draghi di sempre. Spieghiamoci: finora il premier ascoltava, prendeva nota, poi componeva la sintesi dentro però un percorso che pareva già precostituito. Questa volta il quadro s’è fatto più insidioso e l’azione del capo di governo è stata tutta politica, perché i conti non sarebbero tornati dinanzi all’offensiva di Conte, che poi ha ottenuto le norme specifiche sui processi per mafia.

Draghi, pur fissando i paletti per blindare l’impianto normativo, s’è affidato alla mediazione (lui direttamente o comunque attraverso la ministra Cartabia) dei partiti e ciascuno ha costruito il proprio pezzo nell’orticello di casa. La celebre bandierina, che permette a tutti di cantare più o meno vittoria, di rivendicare un successo riformista, compreso lo stesso Conte, solo parzialmente soddisfatto, al quale è stato consentito di salvarsi la faccia. In soldoni, tuttavia, piaccia o meno, c’è un solo vincitore: Draghi. Voleva che il testo della riforma fosse condiviso da tutti, senza astensioni, e così è avvenuto pur dopo ore di frenetiche trattative.

Ora c’è l’ultimo miglio in Parlamento e vedremo come va a finire. Il terzo aspetto politico è che il governo adempie di nuovo al vincolo esterno europeo, in quanto una tranche dei finanziamenti di Bruxelles è subordinata al varo della nuova legislazione che ha per obiettivo la riduzione del 25% della durata dei procedimenti penali. La riforma, evidentemente, andava comunque fatta perché l’Italia – lo ha ricordato la Guardasigilli – è di gran lunga il Paese con il più alto numero di condanne (1.202 dal 1959 ad oggi) della Corte europea dei diritti dell’uomo per la Giustizia lumaca: il diritto degli imputati alla ragionevole durata del processo, trascurato dalla precedente legge Bonafede, è un principio costituzionale e di civiltà giuridica.

Non aspettiamoci miracoli, per quanto, per la prima volta dopo decenni, si tratti di una normativa sostenuta da investimenti nelle strutture e negli organici. Le norme andranno sperimentate sul campo, avranno bisogno di camminare sulle gambe di tutti gli attori e occorre tener presente che numerose toghe hanno espresso riserve e critiche. La controversia sui tempi della prescrizione ha monopolizzato il dibattito forse in modo eccessivo, mentre l’architettura andrebbe vista nell’insieme.

Si avverte il garantismo costituzionale che ha in sé la ministra della Giustizia, che ha parlato di un diritto penale «mite»: aggettivo benvenuto e fin qui inusuale. L’approccio appare innovativo nella ricerca dell’equilibrio fra domanda di giustizia delle vittime e garanzie degli imputati. Il senso riassuntivo ridimensiona l’idea che i mali della società vadano sanati con nuovi reati: si riduce l’area del giudizio penale e del carcere come sanzione principale, si ampliano le pene alternative e le possibilità della giustizia riparativa (che a Bergamo trova un terreno collaudato), si rafforza il ruolo del giudice nel controllo del pm nella fase delle indagini preliminari.

Per una coincidenza di tempi, la riforma incrocia una grave crisi di legittimazione della magistratura e l’immagine fattasi imbarazzante della Procura di Milano, il laboratorio più avanzato e discusso del controllo di legalità, il fortino che ha cambiato il corso della storia politica d’Italia. Nel tempo delle stelle cadenti, questa volta per deficit propri e non per attacchi esterni come avveniva un tempo, la riforma è un banco di prova anche per le toghe, le cui riconosciute competenze dovrebbero essere parte attiva di una partita che val la pena giocare per ricostruire un legame di fiducia con i cittadini.

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