La lezione del Kosovo: la pace non coincide con l’assenza di guerra

Il commento Le guerre vanno contrastate non solo perché rappresentano il più grande attentato alla vita umana, ma per le ferite che lasciano nell’anima delle persone, per le fratture politiche e sociali che generano, per la sete di revanscismi che spesso si depositano nelle parti che si sono combattute. In questo senso il Kosovo è una lezione per la comunità internazionale.

La regione si è proclamata indipendente dalla Serbia il 17 febbraio 2008, uno status riconosciuto da 98 Paesi membri dell’Onu su 193, ma non da Belgrado. Secondo la Corte internazionale di giustizia la dichiarazione non ha violato né il diritto internazionale né la risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ma il parere non include una presa di posizione sull’acquisizione o no della qualità di Stato a tutti gli effetti. Il milione e 789 mila abitanti del Kosovo sono suddivisi, secondo il censimento del 2011, in albanesi (92,9%), serbi (1,5%, concentrati nel nord) e altre etnie (5,6%, tra gorani, rom e turchi).I kosovaro-albanesi hanno il più alto tasso di crescita della popolazione in Europa, tanto che in 82 anni, dal 1921 al 2003, sono cresciuti di 4,3 volte e, considerando costante questo tasso, si può prevedere che raggiungeranno i 4 milioni e mezzo nel 2050. L’ascesa al potere in Serbia di Slobodan Milošević, che si era accreditato come leader nazionalista, coincise con la revoca dell’autonomia costituzionale della regione, del bilinguismo serbo-albanese e l’avvio di una politica di riassimilazione forzata, con la chiusura delle scuole autonome di lingua albanese e la sostituzione di funzionari amministrativi e insegnanti con serbi o persone ritenute fedeli.

Dal 1989 al 1995 la maggioranza della popolazione musulmana mise in atto una campagna di resistenza non violenta sotto la guida del partito Ldk di Ibrahim Rugova. Dopo la fine della guerra in Bosnia Erzegovina, tra i kosovari albanesi nacquero e si rafforzarono in breve tempo formazioni armate con intenti indipendentisti. La repressione serba non tardò, fino a sfociare nella pulizia etnica e nell’intervento della Nato che mise fine al conflitto. L’accordo di Kumanovo, firmato il 9 giugno 1999, sancì il ritiro delle truppe di Belgrado e un protettorato internazionale (Unmik) sotto l’ala delle Nazioni Unite. Oggi a vigilare sulle tensioni che covano tra kosovari albanesi e serbi ci sono 4 mila soldati della missione Nato (Kfor). La comunità internazionale in questi anni ha sperato che la situazione decantasse, ma così non è successo. Anzi, nei giorni scorsi c’è stata una fiammata nel nord per la decisione delle autorità di Pristina di non accettare più documenti di identità e targhe automobilistiche rilasciati da enti e istituzioni serbi. Doveva entrare in vigore il 1° agosto scorso, è stata prorogata a settembre.

Il contesto internazionale, sconvolto dall’invasione russa dell’Ucraina, sembra l’elemento più rischioso nell’attuale rigurgito della tensione. Dopo le speranze suscitate dagli accordi di Bruxelles del 2013, mediati dall’Ue, una risoluzione complessiva del conflitto tra Belgrado e Pristina è scesa sempre più in basso nella lista di priorità di Bruxelles e Washington. L’attenzione torna ora, a causa della guerra in Ucraina, a farsi alta, con i Balcani occidentali percepiti come possibile «secondo fronte» di scontro in Europa tra Occidente e Russia, schierata con la Serbia. Probabilmente il riaccendersi di un conflitto in Kosovo, con Belgrado prima candidata ufficiale a entrare nell’Ue, seppur con mille distinguo, e le truppe Nato schierate sul terreno, è oggi una prospettiva irrealistica ma non priva di rischi. Forse è il momento giusto per trasformare le rinnovate preoccupazioni nella spinta per rilanciare le prospettive di pace e di stabilità di Serbia, Kosovo e della regione all’interno del progetto europeo.

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