L’allarme nucleare e le voci coraggiose

«Siamo vicini al disastro nucleare»; mai dal 1962, dalla crisi di Cuba, «il mondo è stato così prossimo» all’Armageddon atomico. Le leadership occidentali ne hanno ormai preso coscienza tanto che nelle loro dichiarazioni ufficiali non nascondono nemmeno più alle proprie opinioni pubbliche il pericolo che si sta correndo. La Russia di Putin si è ficcata in Ucraina in un vicolo cieco, viene spiegato, e questo rende la situazione ancora più rischiosa.

L’americano Biden comprende che Putin fa terribilmente sul serio, quando ventila l’uso di «tutti gli strumenti a disposizione» per difendere il territorio russo. Dopo i «referendum» quattro regioni ucraine sono «tornate alla Madrepatria». Di conseguenza il campo di utilizzo di questi «strumenti» si è allargato. In un gioco delle parti ben orchestrato il leader ceceno Kadyrov ha chiesto pubblicamente al Cremlino nei giorni scorsi perché non vengano utilizzate le «armi tattiche» con testate nucleari al fronte contro l’esercito di Kiev in rapida avanzata. Solo così, probabilmente, i russi possono cercare di evitare la sconfitta che sta delineandosi prima della possibile battaglia finale per la Crimea.

Si sa già che se Mosca utilizzasse in un teatro limitato quel tipo di armi, l’Alleanza atlantica risponderebbe con quelle convenzionali, ossia fornendo a Kiev tutto quello che finora è stato promesso ma non ancora consegnato. Il Cremlino, però, prenderebbe atto in tal caso che l’Occidente è ormai parte belligerante, pertanto… fuoco alla santabarbara atomica. Vladimir Putin non ha scelta: se vuole sperare di rimanere al potere deve perlomeno pareggiare in Ucraina. Altrimenti farebbe la fine di tutti gli zar sconfitti e si aprirebbe per lui la strada per la pensione. Le élite federali, fino al 24 febbraio fedeli e conniventi, hanno perso gran parte dei loro privilegi, un sacco di soldi e vedono i propri figli andare a rischiare la pelle in terre, il cui destino è per loro indifferente.

Dietro a questa retorica atomica si nascondono invero i primi seri tentativi di trovare una soluzione senza farsi ulteriormente del male. La minaccia nucleare è nel linguaggio muscolare di Putin un’offerta a farla finita qui: la Russia si prende le quattro regioni e termina l’«operazione speciale» alle sue condizioni. Gli americani hanno risposto a sorpresa che Biden al G20 di novembre potrebbe incontrare Putin. Invero Washington rilancerebbe con la restituzione a Kiev delle regioni, lasciando alla Russia la Crimea (che è la vera causa della tragedia in corso dal 2014). Così il capo del Cremlino rinuncerebbe a «ridimensionare» l’Ucraina, togliendole il Donbass, la «Lombardia» nazionale, e la centrale atomica di Zaporizhzhia, la maggiore d’Europa. Il problema è che, in caso di realizzazione del secondo scenario, sia Kiev che Mosca dovrebbero far ingoiare alle proprie opinioni pubbliche bocconi amari con tutte le conseguenze del caso. L’Occidente si trova anche nella condizione di non fare troppe concessioni ad un’autocrazia, acerrima avversaria delle democrazie europee e nord-americane.

Un’autocrazia che ha quasi cancellato in patria la propria società civile. Il premio Nobel per la pace assegnato al dissidente bielorusso Ales Bialiatsky, all’ong russa «Memorial» e a quella ucraina «Centro per le libertà civili» è il segnale che quei difensori coraggiosi dei diritti umani in lotta per la libertà, per la verità, per la democrazia a sprezzo del pericolo personale non sono soli. Anzi. La forza morale è superiore al carcere, alle botte e ai soprusi. Questi riconoscimenti, annunciati a Oslo il giorno del 70° compleanno di Putin, non sono di certo un bel regalo per il sempre più isolato capo del Cremlino, che si è consolato con il trattore portatogli in dono dal collega bielorusso Aljaksandr Lukashenko, già direttore di un kolkoz (una fattoria collettiva sovietica), colui che dall’agosto 2020 - dal tempo dei brogli alle presidenziali - non ha perso occasione per menare nelle piazze un intero popolo. L’annuncio dei Nobel ha avuto anche sorprese, non positive. A Kiev un gruppo di intellettuali si è mostrato irritato che il Comitato norvegese abbia assegnato il premio ai tre Paesi slavi orientali insieme, mettendoli sullo stesso piano. Così dice, si è giustificato l’intervento militare del Cremlino in Ucraina. Putin afferma infatti che i tre popoli slavi orientali siano in realtà un unico popolo, ma a Kiev ribadiscono che non è così. Questa ultima precisazione - invece di celebrare tale riconoscimento per qualche ora - indica quanto sia impervia la strada verso la pace.

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