Le conquiste dei russi, il problema
per l’Europa

Per quanto il presidente Usa Biden faccia giochi di parole («Non ci sono prove che la città sia caduta»), Mariupol non solo è caduta ma era caduta già diversi giorni fa. Da quando, cioè, l’unica resistenza ucraina era quella dei superstiti del Battaglione Azov e della 36ª Brigata di fanteria di marina chiusi nel ridotto dell’acciaieria Azovstal.

La disponibilità al sacrificio supremo di quei soldati ha appassionato il mondo. Ma questo non è un vecchio western bensì una moderna e crudelissima guerra e bisogna purtroppo badare ai fatti. Dicono fonti russe (dubitabili ma non troppo) che al momento dell’accerchiamento da parte dei russi c’erano in città più di 8mila soldati ucraini, dei quali ne restano circa 2mila, quelli appunto asserragliati nell’impianto. Ciò vorrebbe dire che l’Ucraina ha perso 6mila soldati, tra morti, feriti e prigionieri. E che altri 2mila, quelli appunto che resistono, possono solo cercare di sopravvivere, non possono per esempio andare a rafforzare le difese di Kharkiv o Kramatorsk, altre città ora minacciate. Vladimir Putin, che ha bloccato ulteriori attacchi nell’acciaieria, a quanto pare conta di prenderli per fame e sete, visto che non possono ricevere rifornimenti.

È vero che la responsabilità della guerra ricade sul Cremlino, e che non c’è conquista territoriale che possa compensare la Russia per ciò che sta perdendo su tutti gli altri fronti. Ma è forse giunto il momento di chiedersi quanto possa costare all’Ucraina tanta resistenza, che cosa possa restare del Paese se anche Odessa dovesse subire la sorte di Mariupol e l’Est diventare un unico grande Donbass.

Ma non c’è solo questo. Non a caso le forze armate russe hanno bombardato Mariupol per 50 giorni e hanno insistito per conquistarla anche a costo di ridurla in macerie. Con la presa della città, i russi possono collegare via terra il Donbass con la Crimea, finora legata alla Russia continentale solo da un ponte che gli ucraini hanno peraltro minacciato di far saltare. E il collegamento via terra è condizione indispensabile per poter poi attaccare anche Odessa. Ma già così, cioè anche senza prendere Odessa, Mosca può dire di controllare il Mare di Azov e l’80% della costa ucraina sul Mar Nero. Il che vuol dire annichilire il commercio marittimo del Paese, privandolo di risorse importanti, ma anche influire in modo decisivo su rotte commerciali che sono per esempio decisive per gli approvvigionamenti del Medio Oriente.

Putin ha voluto celebrare ricevendo al Cremlino il discusso ministro della Difesa Shoigu (non colpito da infarto e nemmeno destituito, come pure si diceva) e congratulandosi con lui per la cruenta conquista. Un accenno di trionfalismo, seppur nel freddo stile putiniano, che potrà magari rispondere alle considerazioni strategiche ma che non si concilia con il panorama di distruzione e di morte creato a Mariupol, con i civili uccisi, con le perdite tra i soldati dell’una come dell’altra parte. È vero che la responsabilità della guerra ricade sul Cremlino, e che non c’è conquista territoriale che possa compensare la Russia per ciò che sta perdendo su tutti gli altri fronti. Ma è forse giunto il momento di chiedersi quanto possa costare all’Ucraina tanta resistenza, che cosa possa restare del Paese se anche Odessa dovesse subire la sorte di Mariupol e l’Est diventare un unico grande Donbass. E se non avessero qualche ragione i Paesi che, nelle fasi iniziali di questa guerra senza senso, cercavano di perseguire la pista diplomatica, anche a costo di non vincere, o non vincere del tutto, il braccio di ferro con la Russia e con le sue pretese espansionistiche. Com’è ovvio, solo gli ucraini possono decidere del destino del loro Paese.

Finora il legame tra il presidente Zelensky e la sua dirigenza, le forze armate e la popolazione si è mostrato solidissimo e il prolungamento della guerra, con il cumulo di orrori che man mano rivela, non può che rafforzarlo. Da Kiev arriva una sola richiesta: armi più potenti, in maggiore quantità e in tempi più stretti. Stati Uniti, Polonia e Regno Unito sono in prima fila per rispondere, la Germania fatica perché il contestato cancelliere Scholtz è preso tra le pressioni del fronte occidentale e i timori delle associazioni tedesche dei lavoratori e degli imprenditori, che temono una violenta recessione nel momento in cui si arrivasse all’embargo del gas importato dalla Russia. Non è un problema tedesco, è piuttosto la condizione dell’Europa intera, presa in questa guerra-non guerra che deve combattere contro la Russia e che ha aperto orizzonti nuovi e tutti da esplorare. La Germania, per importanza e dimensione, è solo il Paese che si affaccia per primo sul mondo nuovo.

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