Le trappole informative della guerra «lontana»

Il conflitto russo-ucraino non assomiglia oggi quasi per nulla a quanto visto nei tanti film sulla Seconda guerra mondiale o su quelle in Corea o in Vietnam.

Lo scontro fisico tra le fanterie è assai più limitato rispetto ai continui cannoneggiamenti delle artiglierie, schierate a distanza tra di loro di decine chilometri, con le novità determinate dai missili e dagli ordigni sganciati dai droni, i quali piombano all’improvviso dal cielo sulla testa di soldati e di civili. Adesso siamo arrivati ad una svolta con l’unico capoluogo regionale, conquistato nei mesi scorsi dai russi, Kherson, che è stato abbandonato dalle Forze armate federali, poiché esse non sono più in grado di rifornire le truppe sfiancate in città e le loro linee di approvvigionamento sono state distrutte. Kiev, però, non si fida e teme una trappola. Così il presidente Zelensky continuerà a far colpire da lontano con le artiglierie prima di far entrare le truppe a Kherson. Da questa breve descrizione si capisce come sia complicato raccontare in tivù un conflitto visto da lontano.

Esaminiamo il sorprendente attacco con droni aerei e kayak guidati da remoto contro le navi a Sebastopoli, la storica base russa. Dell’azione ucraina non vi sono immagini tivù. Di conseguenza, i notiziari mondiali hanno preferito parlare quasi solo della reazione di Mosca di bloccare l’accordo sul grano, invece che di un attacco clamoroso. L’altro grande problema è che la campagna militare si svolge troppo lentamente su un fronte lungo circa 2mila chilometri, presidiato da un pugno di uomini. La realtà del XXI secolo, al contrario, necessita di infiniti aggiornamenti, di «breaking news» stupefacenti, di storie personali dei tipi più diversi per attirare l’attenzione delle masse, ubriacate di cronaca «acca 24» e schiave dell’ultimo evento in ordine cronologico e non in grado di identificare invece quello più importante.

«Ma ci sono adesso i video», ci viene fatto rilevare. Occhio: le riprese, girate da chissà chi con gli smartphone e rilanciati su Telegram, sono un riferimento sì rilevante, ma non sono state filtrate dai canali specializzati e possono essere poco attendibili, poiché sono alla mercé delle opposte «disinformatsija» di cui le scuole zarista e sovietica sono maestre. Quindi tali video, fondamentali altresì per raccontare la rivolta in Iran, in questo scenario vanno presi con le molle.

In un tale conflitto, la battaglia mediatica e propagandista è pertanto diventata ancora più strategica e raffinata che in passato. Serve allo stesso tempo ai governi per giustificarsi con la popolazione, che è costretta a tirare la cinghia - tra bollette paurose, inflazione in doppia cifra, recessioni inattese - o a sopportare «mobilitazioni parziali» dei propri uomini.

La prima domanda da farsi è chi è che tiene l’agenda delle tematiche da usare? Non appena questa «operazione speciale» – che di speciale non ha nulla - dà assuefazione alle masse, ecco che salta fuori la discussione sull’uso di «armi tattiche nucleari», dispositivi equiparabili alle bombe atomiche di gran lunga più potenti di quelle di Hiroshima e Nagasaki, ma in un teatro limitato. Quando finisce il suo eco con «scambio di cortesie», viene subito rilanciato l’incubo della «bomba sporca». La seconda domanda è: ma questi propagandisti e politici si rendono conto di cosa dicono? Si vuole irresponsabilmente avvicinare l’umanità all’apocalisse? Perché si porta qualsiasi cosa al suo estremo? Fare attenzione a queste dinamiche è utile per capire cosa sta succedendo davvero e a non farsi prendere all’amo dai soliti noti!

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