L’eredità di Armani, un genio globale

MONDO. Ha continuato a lavorare fino all’ultimo, occupandosi del belletto delle mannequin delle sfilate. C’è persino chi lo ha sorpreso di persona, all’età venerabile di 91 anni, con gli spilli in bocca, appuntare uno dei suoi scintillanti capi su un manichino, dietro la vetrina della boutique in via della Spiga.

La foto gira sui social ed è sorprendente. Del resto la cura del dettaglio fa parte del genio imprenditoriale, come sanno tutti i veri imprenditori, e Giorgio Armani, l’ex vetrinista della Rinascente capace di costruire un impero del lifestyle e della moda partendo dal nulla, un genio lo è stato davvero. Lo si potrebbe inserire a pieno titolo nel Pantheon dei grandi imprenditori che hanno fatto grande l’Italia: Enzo Ferrari, Adriano Olivetti, Giovanni Agnelli, Leopoldo Pirelli, Leonardo Del Vecchio per citarne i primi che vengono in mente.

La dimensione internazionale

Ma questo milanese capace di t rasformare le stoffe in sogni ha avuto una dimensione internazionale, globale, come Akio Marita, il fondatore della Sony, o Coco Chanel o Steve Jobs. Si potrebbe dire che Giorgio Armani è un «rinascimentale moderno»: un po’ Leonardo per l’armonia, Brunelleschi per l’innovazione strutturale, Lorenzo il Magnifico per il mecenatismo, Cellini per la cura del dettaglio, Raffaello per l’eleganza proporzionata. Esageriamo? Può darsi, ma certamente qualunque imprenditore, artigiano, stilista, organizzatore, filantropo, non può prescindere dalla biografia e dalle opere della sua lunga vita se vuole rubare almeno una goccia della sua personalità poliedrica: creatività, visione, dedizione, cura maniacale del particolare, cultura, umanità.

«Non è scontato dire che se il nostro Paese vuole ripartire dovrà raccoglierne l’eredità e seguirne la strada»

Non è scontato dire che se il nostro Paese vuole ripartire dovrà raccoglierne l’eredità e seguirne la strada. Era nato a Piacenza l’11 luglio 1934, in una famiglia modesta che non poteva immaginare il destino cucito addosso a quel ragazzo timido. Studia medicina per un po’, ma capisce presto che non è il camice giusto. Lo sostituisce con il tessuto, prima come vetrinista alla Rinascente, poi come assistente stilista. A metà degli anni Settanta, insieme a Sergio Galeotti, fonda la sua casa di moda. È il 1975: l’Italia vive gli anni di piombo, ma Armani disegna giacche destrutturate, leggere, che restituiscono libertà di movimento. Un piccolo gesto che diventa rivoluzione. Hollywood se ne accorge subito: Richard Gere in «American Gigolo» veste Armani e trasforma il marchio in mito. Da allora la stella di Giorgio il Magnifico non smetterà di brillare, illuminando passerelle e red carpet. Uomo riservato, amante dello sport e della disciplina, costruisce un impero con oltre 2 miliardi di fatturato e migliaia di dipendenti, senza mai staccarsi dal suo tratto sobrio e inconfondibile. «L’eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare», diceva. «Il mio lavoro non è fare vestiti», aggiungeva, «è aiutare le persone a sentirsi bene con ciò che indossano».

«Il mio lavoro non è fare vestiti», aggiungeva, «è aiutare le persone a sentirsi bene con ciò che indossano».

Ha vestito presidenti, star, atleti olimpici

Ha vestito presidenti, star, atleti olimpici. Ma ha soprattutto indossato un’idea: quella di un’eleganza senza tempo, capace di far sentire chiunque a proprio agio nei propri panni. Lascia un patrimonio di 12 miliardi e un impero della moda e del lusso su cui non tramonta il sole, che dà lavoro a 9mila dipendenti, con 650 negozi nel mondo e un fatturato di 2 miliardi e mezzo. Ma dietro questa ricchezza, come un abito di buona taglia, si cela un cimento da «cumenda», fatto di ore e ore sui banconi sartoriali, poi nelle maison della moda, nei laboratori artigianali e infine nei grandi complessi industriali che fanno capo al suo regno. Su cui ha continuato a vegliare come un patriarca gentile, fedele al lavoro e alla sua estetica. Perché lo stile, per lui, non è apparenza: è una forma di verità.

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