L’Europa resta un’incompiuta

Cento giorni di guerra in Ucraina reclamano un ruolo di primo piano per la diplomazia, nonostante i ripetuti niet di Putin e la nuova ritorsione di Mosca contro l’Italia. Mentre il conflitto è entrato nella terza fase, fra guerra di logoramento e tentativo di sfondamento russo nel Donbass, il percorso negoziale abborda il secondo capitolo.

Ci vuole tempo, ma lo scorrere dei giorni è dalla parte degli invasori. Qualcosa, ancora di confuso, si muove sul fronte del grano. La consistenza corale dell’Europa c’è stata (a parte il guastatore Orban, professionista del veto) su tutta l’agenda: l’invio di armi alla resistenza ucraina, le sanzioni senza precedenti fino all’embargo del petrolio russo via mare per prosciugare i finanziamenti dell’offensiva di Putin. Nella consapevolezza che il crimine dello zar è un attacco all’Europa e ai suoi valori, quindi la risposta occidentale è data dal nesso inscindibile fra ricerca della pace e difesa della democrazia. Il punto interrogativo si colloca sulla tenuta a distanza dell’unità d’intenti occidentale e del rigore delle misure decise, e sarà una dura prova per i 27 perché le sanzioni si riflettono in modo asimmetrico sui singoli partner e perché il consesso pro Ucraina si compone di tante sfumature, che vanno dalla storia alla geografia dei singoli Stati.

Ad esempio: la prudenza tedesca che sembra non esercitare una leadership pari alla sua forza economica, l’attivismo degli ex satelliti dell’Urss guidati dalla Polonia, ormai una retrovia strategica alla guida dell’ala più determinata contro la Russia, l’esposizione bilanciata del governo italiano che rinvia ai fondamentali della lealtà euro-atlantica del nostro Paese (a proposito: il piano di pace della Farnesina che fine ha fatto?). I rapporti di forza sul terreno, lo stallo dell’armata putiniana e la resistenza con difficoltà degli ucraini all’onda d’urto dei tank russi, condizionano e peseranno sulla tela costruita dalle cancellerie: saranno purtroppo le armi a stabilire dove si poserà il pendolo. Alla Ue, che pure c’è, si rimprovera il cumulo di iniziative individuali (tutti i leader dei principali Paesi hanno contattato Putin) ma non ancora il colpo d’ala di una diplomazia a voce unica: la politica estera della Ue continua ad essere la grande incompiuta. Gli obiettivi precisi non sono visibili, a portata di mano: un cessate il fuoco in prospettiva, ma quale pace? Quella degli aggressori, degli aggrediti, della mediazione della comunità internazionale? Sarà l’Ucraina a stabilire quale pace ci sarà, così hanno detto chiaramente i leader occidentali, a cominciare da Draghi.

Qualsiasi obiettivo, nella migliore delle ipotesi, cercherà di essere il meno peggio: si tratta di riunire punti di partenza fra loro in netta opposizione. Qualsiasi trama avrà i suoi punti di forza e punti deboli e discutibili, compresa quella di cui si parla in questi giorni: l’ipotesi di un equilibrio fra «vittoria ucraina» e «non sconfitta russa» per consentire un’uscita strategica al capo del Cremlino, in modo da salvare la faccia a colui che guida una potenza revisionista dell’ordine internazionale. Una curvatura differente rispetto all’ipotesi di cambio di regime a Mosca ventilata da Biden a inizio conflitto. Fermo restando che Zelensky sostiene legittimamente la piena sovranità territoriale già amputata del 20% dall’avanzata russa. I costi, comunque sia, saranno alti e per questo nel tempo del disordine e della seduzione dell’uomo forte serve un supplemento di responsabilità, richiamato anche recentemente dal presidente Mattarella, in un’Italia mai così divisa dalla stagione della Guerra fredda. Lo stress test è martedì 21 in occasione del voto sulle comunicazioni di Draghi al Senato.

Un passaggio rischioso, ha avvertito il capo delegazione leghista Giorgetti, nel caso dovessero saldarsi i niet di Salvini (reduce dall’autogol della maldestra idea di andare a Mosca) e di Conte che in questi giorni ha scelto il profilo basso: il primo spaiato rispetto alla sua squadra ministeriale e alla base territoriale, il secondo rappresentativo solo dell’ala non governativa dei 5 Stelle. Due leader logorati e in perdita di velocità, orfani dei «bei tempi» e non più sorretti da un’idea forte, capace di frenare la caduta di consensi nei sondaggi: la cattura delle inquietudini dell’opinione pubblica dietro la pretesa nobiltà «pacifista» non s’è tradotta finora in un’opzione elettorale favorevole ai due partiti. Salvini e Conte accedono alle comunali di domenica 12 con ridotte aspettative e quanto ai quasi non pervenuti referendum sulla giustizia, voluti anche dalla Lega e che si svolgono lo stesso giorno, è in agguato la mancanza del quorum. I conti potrebbero non quadrare. Ma sarà un passaggio sofferto anche per il governo: la divisione su un tema fondante come la politica estera non sarebbe senza conseguenze.

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