L’Europa e la sfida dell’ordine globale

EUROPA. Finora solo Wall Street è riuscita a contenere l’arbitrio dei dazi a pioggia di Trump, con il tonfo borsistico all’indomani del 2 aprile, il giorno in cui il presidente ha annunciato tariffe al 30% contro l’Europa, intesa come blocco unico, e diversi altri Paesi.

Ma ora i mercati attendono gli sviluppi, che per noi significano ottenere la riduzione del danno, il male minore. I Ventisette, pur dentro uno sforzo negoziale in extremis e ricordando che la politica commerciale è di esclusiva competenza della Commissione di Bruxelles, sono divisi fra chi insegue una risposta difensiva e prudente e chi vuole una replica per le rime, ricorrendo ad esempio agli strumenti anti-coercizione. La prima ipotesi, se non ben calibrata, rischia di tradursi in passiva remissione. S’è già visto in sede Nato (le spese per la Difesa dei singoli Paesi al 5% del Pil) e al G7 (le multinazionali americane esonerate dalla global minimum tax) come le indecenti genuflessioni per conquistare la benevolenza di Trump siano inutili, oltre che un danno reputazionale per chi le promuove. L’altra alternativa, quella dei dazi di ritorsione, sarebbe un boomerang nocivo per tutti. Equilibrio, anzi equilibrismo complicatissimo. Mentre in America si sta riaffacciando l’inflazione, in Europa da questo rudimentale protezionismo ci si aspetta meno crescita e più carovita, l’opposto degli anni d’oro (1989-2008) della pur contestata globalizzazione.

I conti saranno pesanti, però c’è dell’altro per un continente che si vuole gigante commerciale e nano politico. Questa Casa Bianca non solo non ama l’alleato di sempre, ma nel manifesto ideologico dell’America First si persegue l’obiettivo di «smantellare l’Unione europea». Se l’ossessione di Trump, che sembra sfidare ragione e razionalità, crea un legame fra il riequilibrio della bilancia commerciale e la sicurezza nazionale, si è oltre la trattativa commerciale: non una semplice correzione contabile, piuttosto la riscrittura dell’ordine globale che per il vecchio continente equivale a una sfida esistenziale. Si torna quindi alla casella di partenza: l’America non ha più la strumentazione, la volontà politica, la disponibilità a investire in quei beni pubblici, come sicurezza e cooperazione (pensiamo a cosa di buono ha rappresentato il Piano Marshall), che hanno costituito la primaria espressione della superpotenza e il suo potere di convincimento.

Trump è il punto di fragorosa rottura, l’onda lunga del «secolo americano», il Novecento, protrattosi sino alla grande crisi finanziaria del 2007-2008 che ha messo in evidenza come gli americani (e gli occidentali) non potevano più permettersi di vivere come avevano vissuto in precedenza. L’esperienza storica degli Stati Uniti (citiamo da alcuni testi di Manlio Graziano, autorevole studioso di geopolitica) segue il ciclo naturale dell’ascesa, della maturità e del declino relativo, vissuto nell’inquietudine di chi si rifugia in se stesso trovando i colpevoli dei propri mali nel mondo esterno. Declino relativo nel senso che, pur rimanendo i numero uno in termini economici militari e tecnologici, da circa 70 anni crescono meno e più lentamente rispetto ai loro diretti competitori. Da qui anche una presa minore in chiave strategica e politica, peraltro contestata dai nuovi emergenti.

Non si può essere indifferenti dinanzi agli orrori patiti dalla popolazione ucraina e dai palestinesi a Gaza, così come non si può transitare passivamente, in nome del realismo politico e di sperabili buoni affari (quando ci sono e per ora rinviamo a tempi migliori), sull’offensiva di Trump contro lo Stato di diritto. Si può sempre doverosamente sperare, anche contro tante evidenze dolorose, senza farsi troppe illusioni

Già nel corso degli choc petroliferi dei primi anni ’70, Nixon, la cui presidenza era definita «imperiale», doveva ammettere che il suo Paese «non era più in completa preminenza e predominanza». Oggi, sostiene Prodi, si ritorna alla Guerra fredda con protagonisti rinnovati: «L’America ha cambiato l’anima. E noi tutti che l’abbiamo amata, siamo sorpresi da questo cambiamento così radicale». Nel mondo capovolto e fuori controllo dei regimi autoritari e delle democrazie imperfette abilitati a dare le carte, vige la legge del più forte. Tuttavia – ha scritto lo storico Agostino Giovagnoli su «Avvenire» – «l’impazzimento della politica rivaluta le ragioni della morale». Le relazioni internazionali non sono fatte solo di rapporti di forza, convenienze o equilibrio di potenza. Ci sono linee rosse di umanità e di civiltà giuridica invalicabili e l’imposizione unilaterale dei dazi pone un problema anche all’identità morale dell’Europa, cresciuta dentro le regole del diritto internazionale e che quindi è chiamata a scegliere fra ciò che è giusto e quel che non lo è. Non si tratta soltanto di una questione aritmetica. Non si può essere indifferenti dinanzi agli orrori patiti dalla popolazione ucraina e dai palestinesi a Gaza, così come non si può transitare passivamente, in nome del realismo politico e di sperabili buoni affari (quando ci sono e per ora rinviamo a tempi migliori), sull’offensiva di Trump contro lo Stato di diritto. Si può sempre doverosamente sperare, anche contro tante evidenze dolorose, senza farsi troppe illusioni.

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