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EUROPA. In assenza di un negoziato diretto fra Mosca e Kiev, è inevitabile assistere da mesi alla spola dei mediatori statunitensi con i «Piani di pace» continuamente corretti. L’unico incontro dal vivo fra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky avvenne all’Eliseo il 9 dicembre 2019, alla presenza del padrone di casa Emmanuel Macron e dell’allora cancelliera Angela Merkel.
Il vertice era stato richiesto dal presidente ucraino, eletto in quell’anno, per chiudere definitivamente la guerra in Donbas iniziata nel 2014 e che era ormai sedata (secondo l’Onu le vittime civili fra il 2019 e il 2021 furono 78, per il 40% non russofile). Il summit non portò a nulla e il 24 febbraio 2022 lo zar avvierà l’invasione su larga scala, motivandola anche con la difesa del Donbas, oggi fra le regioni ucraine più distrutte e svuotate di abitanti. Ed è sempre quell’area il nodo delle trattative: Putin chiede che l’esercito ucraino liberi il 20% di territorio che gli invasori non hanno ancora conquistato con l’«Operazione militare speciale» iniziata quasi quattro anni fa e dove dal 2014 Kiev ha costruito tre grandi linee difensive per evitare sfondamenti verso l’ex capitale Kharkiv e in direzione Ovest: va ribadito che si tratta di terre abitate, la cessione comporterebbe altri sfollamenti di chi non vuole prendere la cittadinanza russa, obbligatoria per decreto nel 18% di Ucraina annessa con una firma al Cremlino nel settembre 2022.
Ieri Donald Trump, durante il vertice con Zelensky, ha dichiarato di pensare che il presidente ucraino «e Putin siano pronti a un accordo», con l’Europa coinvolta sulle garanzie di sicurezza. Non è dato sapere se si tratti di un giudizio basato sull’ottimismo della volontà o della ragione, su nuovi elementi di una possibile intesa non resi noti. Sabato scorso il capo del Cremlino ha intimato: «Kiev risolva il conflitto pacificamente o lo faremo con la forza». Quella forza militare che peraltro utilizza dall’inizio dell’invasione su larga scala, brutalmente esercitata ad esempio a Bucha e a Mariupol o trasferendo a forza migliaia di minori ucraini in Russia e incrementando gli attacchi con missili e droni su abitazioni e centrali elettriche del 30% dal gennaio scorso, secondo l’Onu.
C’è da augurarsi che il «metodo Trump», pace in cambio di affari, seppure cinico ed emendato da ogni minimo senso di giustizia, possa almeno sedare il conflitto
La guerra in corso in Europa va inquadrata nella sua grande prospettiva per comprendere le difficoltà della via di uscita, una sfida epocale dichiarata, di natura ideologica e revanscista, con la volontà di Mosca di ridisegnare l’ordine mondiale dopo gli spazi che si sono aperti con gli Usa declinanti in seguito alle debacle in Afghanistan, Iraq e Libia. Nei giorni scorsi sono state desecretate le trascrizioni degli incontri avvenuti fra Putin e George W. Bush, tra il 2001 e il 2008, in particolare un dialogo di 17 anni fa. I due presidenti erano a Sochi e lo zar disse: «L’adesione alla Nato di un Paese come l’Ucraina creerà un terreno di conflitto. L’Ucraina è uno Stato molto complesso. Non è una nazione costruita in modo naturale. È un Paese artificiale, creato in epoca sovietica». Un falso caro al nazionalismo russo storico e contemporaneo: territori ucraini furono indipendenti in particolare fra il 1917 e il 1920 e il tentativo di sopprimere lingua, cultura e identità ucraine è iniziato tre secoli fa. Quel nazionalismo vorrebbe ricomporre la Rus’ di Kiev, riportando la Russia a una dimensione anche geografica imperiale e considerando l’Ucraina come ponte verso l’Europa centrale dal quale controllare da vicino le ambite «sfere di influenza» confinanti. La conclusione della guerra arriverà quando Mosca, che non concede nemmeno una tregua, prenderà atto che il progetto non è realizzabile, per l’opposizione manifesta della maggior parte della popolazione ucraina. C’è da augurarsi che il «metodo Trump», pace in cambio di affari, seppure cinico ed emendato da ogni minimo senso di giustizia, possa almeno sedare il conflitto.
I mediatori da parte statunitense sono Steve Witkoff, immobiliarista e socio del tycoon, e il genero, Jared Kushner. Dal lato di Mosca, Kirill Dmitriev, capo del Fondo sovrano russo, formatosi negli Usa e a Goldman Sachs. Sono già stati definiti i contorni di accordi bilaterali su terre rare ed energia. Ma sotto Trump, affidare a famiglia e amici questioni di interesse nazionale e internazionale, senza alcuna trasparenza, ormai è la norma, come è accaduto con il Piano per Gaza. Ai popoli le briciole, ma almeno non siano più sottoposti a persecuzioni militari. Anche la logica dei rapporti di forza deve darsi dei limiti per far uscire il mondo dal caos nel quale viviamo.
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