L’Occidente soffre di sfiducia in se stesso

Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare del pacifismo. Parafrasando un celebre film di Lina Wertmüller potremmo dire di esser vissuti a lungo nella beata incoscienza di cosa fosse la politica estera. Adagiati nel ventre molle della società del benessere, protetti dall’ombrello del potente alleato americano, ci siamo illusi che la guerra fosse stata espunta dalla storia. A dire il vero, in questa lunga epoca di pace europea, siamo stati più volte sull’orlo di un devastante, irrimediabile disastro atomico: dalla crisi di Berlino del 1948 a quella di Cuba dei primi anni Cinquanta per non dire dell’incidente dell’U2, quando un velivolo spia americano cadde in territorio sovietico nel 1950.

Non sono mancate guerre regionali a ripetizione in tutto lo scacchiere mondiale; alcune, come la guerra di Corea del 1951 o quella del Vietnam degli anni Sessanta, col pericolo di farci precipitare nella terza guerra mondiale. L’illusione di vivere in un ordine irenico, lungi dallo scomparire, si è rafforzata dalla caduta del muro di Berlino. Per qualche tempo è invalsa l’idea che con la scomparsa del nemico storico del comunismo fosse venuta meno l’unica minaccia di guerra mondiale. Nell’era promettente della globalizzazione, l’unico conflitto ipotizzabile sarebbe stato di carattere economico, non più militare.

L’attesa diffusa era di celebrare il trionfo dell’idea di società dell’Occidente: capitalismo più democrazia. Nulla di tutto questo si è avverato. Prima l’Europa, poi l’America hanno imboccato la via, se non del declino, certo del loro forte ridimensionamento. La bruciante crescita economica della Cina ha risvegliato nuove ambizioni di egemonia mondiale. Così l’Occidente, ridimensionato a livello economico, ha cominciato a soffrire di un male latente e corrosivo: la sfiducia in se stesso. La minaccia lanciata dall’Oriente, costruendo un’identità negativa dell’Occidente, sta fiaccando la sua capacità di resistenza. La partita è complessa perché mette in gioco i fondamenti stessi della civiltà occidentale.

Un pensiero culturale che agisce con aggressività e iattanza sorprendenti, riconduce l’origine di tutti i mali del presente all’azione pervicace svolta dall’uomo bianco sessista, razzista e colonialista. La cultura della colpevolizzazione ha originato a sua volta la cultura della cancellazione (la cancel culture) che revisiona in negativo tutti i processi più celebrati della storia dell’Occidente. Non fa differenza tra politica e arte, scienza e sapere, tra politici e militari, intellettuali e filosofi. Si tratti di Cristoforo Colombo, di William Shakespeare, di Winston Churchill o di Andrew Jackson, tutti sono trattati come portatori di valori e comportamenti deprecabili, antitetici a quelli di una civiltà dell’egualitarismo, della tolleranza, dell’inclusione. Ispira questa cultura una sorta di presentismo, un pregiudizio a favore del presente che fa carne da macello di tutto il passato.

Negli Usa, centro d’irradiazione della cancel culture, la contestazione ha investito persino l’atto fondativo della nazione americana: l’approdo dei Padri Pellegrini cui si addebita lo sterminio dei nativi americani attraverso una devastante opera distruttrice. Il morale annientato di una truppa crea le condizioni della sua disfatta. È quanto di meglio si può fare per galvanizzare lo spirito combattivo dei nemici. Putin e Xi Jimping non perdono occasione per avvalorare la convinzione che l’Occidente sia nel suo stadio terminale e che quindi il futuro sia riservato alle culture alternative, sopravanzando un mondo agonizzante. Il despota russo non avrebbe osato aggredire l’Ucraina se non fosse stato convinto che Europa e America siano ormai tigri di carta, come del resto si sono rivelate in occasione dell’invasione russa della Georgia (2008) e della Crimea (2014).

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