L’Ucraina martoriata, compromessi senza resa

MONDO. Anche mercoledì 22 ottobre, come ogni giorno da oltre tre anni e mezzo, città e villaggi dell’Ucraina sono stati bersagliati da missili e droni lanciati dagli invasori russi su edifici e infrastrutture civili. A Kharkiv è stato colpito un asilo, i piccoli allievi portati in salvo nei rifugi interrati.

Negli ennesimi, criminali (secondo il diritto internazionale) attacchi hanno perso la vita una decina di persone, fra le quali due bambini. Sono state prese di mira anche le squadre di riparazione delle centrali elettriche bombardate. Pure questa volta il bilancio delle vittime avrebbe potuto essere più grave, se il Paese non disponesse di almeno 10 dei 25 sistemi difensivi dei quali avrebbe bisogno e se non avesse reso obbligatori per decreto luoghi sicuri dove proteggersi durante i raid. L’ipotesi di una tregua, seppure fragile come quella raggiunta per la Striscia di Gaza, non è all’ordine del giorno. Per un cessate il fuoco, Mosca chiede di rimuovere le «cause profonde del conflitto», fra le quali non indica l’appartenenza alla Nato degli Stati dell’Europa centro orientale: pretende invece il ritiro dell’esercito ucraino dal 30% dei territori annessi nel settembre 2022 ma che non controlla, il disarmo del Paese smembrato già nel 2014 con la presa militare e illegale della Crimea, la non adesione di Kiev all’Alleanza atlantica, peraltro impossibile proprio dal 2014 perché lo statuto della Nato vieta ingressi a Stati che hanno zone occupate da eserciti stranieri (la stessa condizione nella quale si trovano Moldavia e Georgia che hanno regioni presidiate da battaglioni del Cremlino).

Da mesi negli ambienti politici ucraini non si discute più di integrità ma di sovranità sull’82% delle proprie terre non conquistate da Mosca e in parte riprese dopo la controffensiva vincente del 2022, seguita da altre due perdenti. Ieri il presidente Volodymyr Zelensky ha ribadito ciò che dovrebbe essere noto da tempo: disponibilità a congelare la guerra sulle attuali linee del fronte avendo però forti garanzie di sicurezza, affinché in futuro non avvenga una terza invasione. È il nodo sul quale saltarono i negoziati di Istanbul nel marzo 2022, non per le pressioni britanniche su Kiev come la propaganda russa ha fatto credere anche in Italia, ma perché la bozza d’intesa all’articolo 5 prevedeva che in caso di nuova aggressione cinque Paesi, fra i quali la Russia, avrebbero potuto esercitare un veto su se e chi sarebbe potuto intervenire scongiurando l’attacco. Inoltre nella bozza veniva chiesta la riduzione dell’esercito ucraino a 80mila soldati. Ieri come oggi, condizioni di resa, non di sicurezza. Il Cremlino pretende il ritiro anche da quelle aree dell’oblast di Donetsk (nel Donbas) dove Kiev in questi anni ha costruito fortificazioni per scongiurare pericolosi sfondamenti russi verso ovest, trincee e difese realizzate al prezzo di migliaia di suoi soldati uccisi. In nome del realismo cinico si può abdicare al diritto internazionale, sfregiato a turno da tutte le potenze, ma non chiedere di rinunciare del tutto alla domanda di giustizia e di sicurezza della popolazione ucraina, vittima di ampi, quotidiani e documentati crimini (come l’eccidio di Bucha, 500 dei 2mila residenti di allora uccisi, e l’assedio russo di Mariupol, almeno 27mila morti: compiuti mentre nel 2022 a Istanbul si trattava per la «pace»...).

Si può abdicare al diritto internazionale, sfregiato a turno da tutte le potenze, ma non chiedere di rinunciare del tutto alla domanda di giustizia e di sicurezza della popolazione ucraina, vittima di ampi, quotidiani e documentati crimini

Nessun accordo

La situazione è tragica perché anche il compromesso, sostenuto dall’Unione europea, è rifiutato da Mosca, a conferma che non basta invocare la diplomazia se ognuna delle parti non è disponibile a rinunce. E quando Vladimir Putin è in difficoltà (dal novembre 2022 ha conquistato solo l’1% di territorio in più e la situazione economica della Russia non è confortante, come rilevato dalla Banca centrale di Mosca) aumenta gli attacchi in Ucraina e torna a sventolare la minaccia nucleare. Quel nucleare al quale Kiev rinunciò nel 1994 anche su pressione degli Usa, siglando il Memorandum di Budapest: restituì a Mosca 2mila ordigni atomici dell’era sovietica in cambio della certezza della propria integrità territoriale, che il Cremlino, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna avrebbero dovuto garantire. Con scelta del luogo infelice, Donald Trump e lo zar (pur sempre sotto mandato di cattura della Corte penale internazionale dell’Aja per aver ordinato il trasferimento a forza in Russia di migliaia di minori ucraini) avrebbero dovuto incontrarsi di nuovo proprio a Budapest, dopo il summit estivo in Alaska. Ma il vertice è stato rimandato sine die, mancando un accordo almeno sul cessate il fuoco. Agli occhi del capo della Casa Bianca, Putin non ha ancora superato «linee rosse», come invece fece il premier israeliano Benjamin Netanyahu ordinando il bombardamento in Qatar, alleato americano, preludio al processo negoziale che ha portato alla sigla dell’intesa di Sharm el-Sheikh per Gaza. È il definitivo sdoganamento della diplomazia degli interessi e dei rapporti di forza.

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