Mattarella e il valore umanistico del lavoro

ITALIA. Mentre in qualche parte del mondo si diffonde la dottrina della pace per fare business, il presidente Mattarella, a Torino, ha ricordato il valore umanistico del lavoro come aveva fatto in occasione del Primo Maggio:

«Non vi può essere una pace duratura senza salari equi, senza protezione sociale e senza rispetto delle libertà sindacali. La Costituzione delinea con chiarezza un modello di società in cui il lavoro è al tempo stesso fondamento della Repubblica, strumento di realizzazione personale e leva di giustizia sociale». La centralità costituzionale del lavoro (in quanto fonte di reddito e mezzo di sviluppo della personalità) ha dato un progetto alla Repubblica già nell’incipit della Carta del ’48 e negli articoli sulla giustizia distributiva e sull’uguaglianza sostanziale. I Costituenti concepirono il diritto al lavoro, e quindi la partecipazione di tutti alla gestione economica, in relazione alla sopravvivenza della stessa democrazia.

La Costituzione delinea con chiarezza un modello di società in cui il lavoro è al tempo stesso fondamento della Repubblica, strumento di realizzazione personale e leva di giustizia sociale»

Nonostante alcune evidenze contrarie, il lavoro sa farsi ascoltare e lo s’è visto in questi giorni con l’approvazione della legge di iniziativa popolare voluta dalla Cisl sulla partecipazione dei lavoratori che, dopo circa 80 anni di attesa, consente di dare attuazione all’articolo 46 della Costituzione. La giustizia sociale, dunque, vive dentro una condizione di pace (contenitore multiplo, non solo assenza di guerra) e all’interno di quello sviluppo integrale che è negli indirizzi dell’Onu e della cultura democratica. Parlare oggi di salari equi significa entrare nel vivo del malessere italiano, di un arretramento che ci caratterizza in esclusiva a livello continentale. E vuol dire rilanciare la questione sociale. Negli ultimi 15 anni - fra produttività stagnante, fisco iniquo e polverizzazione dei contratti - abbiamo assistito a una disparità di diritti a cui ha contribuito l’acuirsi del processo di trasferimento degli investimenti dall’economia reale alla finanza.

Possiamo brindare al tasso record dell’occupazione cresciuto più rapidamente del Pil, ossia di quanto si produce, ma i posti creati sono spesso a bassa produttività e reddito. Lavori poveri: la nuova frontiera del precariato oggi è nella povertà fra chi lavora anche a tempo indeterminato. Dietro l’angolo c’è la sfida-opportunità dell’Intelligenza artificiale con l’impatto soprattutto sulle professioni tecniche di livello intermedio e con la sua capacità di assorbire nella tecnologia i saperi del lavoro umano: in arrivo nuove disuguaglianze fra lavoratori con alte e basse competenze, in aggiunta ai vecchi squilibri di ceto? Tutti temi che segnano una trasformazione dell’uomo-lavoratore già in atto, che rende problematica la definizione di secolo dei lavori dopo il ‘900, il secolo del lavoro.

Il valore del lavoro e il ruolo del Papa

È indicativo di questa fase storica che il Papa, prendendo il nome di Leone XIV, si sia messo sulla scia del Pontefice della «Rerum Novarum» che affrontò la questione sociale a fine ‘800. Ieri si doveva mitigare il ruvido capitalismo, oggi è l’Ia a imporre nuove sfide per la dignità umana, la giustizia e il lavoro. Cambiano i termini ambientali e produttivi della rivoluzione, ma resta l’imperativo di guidare un processo che tenga assieme progresso tecnologico e universo sociale. Al lavoro frammentato e in solitudine servirebbe un’agenda di relazioni collettive, sapendo che il ben vivere non coincide con il benessere del consumatore e che l’economia funziona nel rapporto fra mercato, regole istituzionali e dinamismo della società civile. Lo è a maggior ragione in tempi di nazionalismo protezionista, in cui i governi sono meno concentrati sul benessere delle nazioni e più sulle loro posizioni strategiche.

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