
(Foto di Ansa)
Accogliere come un dato ineluttabile, o peggio con un’alzata di spalle, la notizia dell’ennesimo naufragio di migranti nel Mediterraneo, non solo è risposta cinica ma allontana la soluzione a un’immensa tragedia.
La politica infatti agisce anche sulla base del consenso degli elettori e purtroppo il fenomeno delle migrazioni genera voti soprattutto se affrontato in una logica unicamente securitaria. Non è più un’emergenza, perché gli approdi sulle coste italiane sono iniziati oltre 30 anni fa e da allora, con governi di diverso colore politico, salvo eccezioni non si è trovata una risposta che coniughi umanità e regole.
Nelle scorse ore al largo di Lampedusa sono affondate due barche partite dalla Libia, provocando la morte di almeno 27 persone fra le quali una neonata. Ma ci sono decine di dispersi, fra i quali altri minori. L’ennesimo dramma ha scatenato le solite schermaglie fra opposizione e maggioranza, enunciazioni ovvie e promesse che sentiamo da anni. La premier Giorgia Meloni ha espresso «sgomento e compassione» e denunciato giustamente i «trafficanti inumani» per i quali nel marzo 2023 aveva già promesso di dare loro la caccia in «tutto il globo terracqueo». La verità è che nessun partito ha una soluzione certa in tasca. La priorità, quando i migranti si sono messi in viaggio, dovrebbe essere quella morale: salvare vite in mare. L’unico serio tentativo in questa direzione fu messo in atto dal governo Letta con l’operazione «Mare Nostrum» fra il 2013 e il 2014, poi smantellata. In anni recenti sono state addirittura adottate misure per complicare il soccorso delle navi delle organizzazioni non governative. Appare poi evidente che la Libia non è un approdo sicuro, dal quale invece scappare perché i migranti sono sottoposti alle stesse violenze dei Paesi d’origine dai quali fuggono. Solo negli ultimi 10 anni nel Mediterraneo hanno perso la vita 30mila persone: è il numero delle vittime di una guerra di medie dimensioni.
Ma c’è un altro dato che va rimarcato per allargare lo sguardo: secondo il rapporto annuale «Global Trends» dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), pubblicato nel giugno scorso, alla fine di aprile 2025 nel mondo c’erano 122,1 milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case, rispetto ai 120 milioni dello stesso periodo del 2024, in un decennio di aumenti annuali del numero di rifugiati. I principali fattori che determinano la fuga restano i grandi conflitti e la persistente incapacità della politica di fermarli. Il numero dei migranti sarebbe più alto se si potesse scappare anche dalla mattanza in corso nella Striscia di Gaza. Il 73% dei rifugiati del mondo è ospitato nei Paesi a basso e medio reddito. La maggior parte, il 67%, rimane negli Stati limitrofi alle guerre, quando è possibile. Non è il caso del Sudan dove è incorso un ferocissimo e contagioso conflitto di spartizione del Paese, con vasti e documentati crimini sui civili e accuse di genocidio nei confronti delle Forze di supporto rapido e delle milizie loro alleate. E proprio dal Sudan arrivavano alcuni migranti morti nelle scorse ore nel canale di Sicilia, oltre che dalla Somalia, dove la guerra iniziata nel 1991 non si è mai spenta del tutto, e dal Pakistan, teatro della riaccesa contesa militare con l’India.
Ad aprile Filippo Grandi, direttore dell’Unhcr, aveva segnalato come proprio in Libia fossero presenti 250mila sudanesi che potrebbero cercare di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo. Perché tutto si tiene: le migrazioni sono figlie di conflitti alimentati anche da spese militari e traffico di armi, e della dimenticata crisi climatica che genera effetti devastanti pure sull’agricoltura di sussistenza. Le leggi per porre fine o per arginare i fenomeni che costringono le persone a fuggire ci sono: a livello globale sono quelle del diritto internazionale e del diritto umanitario internazionale, sottoscritte dai 193 Stati aderenti all’Onu. Ma viviamo in un mondo in subbuglio privo di un governo che obblighi ad applicare le norme: non lo sono le Nazioni Unite, bloccate dai veti delle grandi potenze e da logiche politiche nazionali quando non nazionaliste, e non lo è l’Unione europea per le stesse ragioni. Bisogna riformare questi organismi anche dal punto di vista degli obiettivi e degli ideali e pensarne di nuovi, perché da soli pure i singoli Paesi non vanno da nessuna parte. E le tragedie del mondo restano senza risposta.
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