Par condicio Pd e M5s all’angolo (e divisi)

ITALIA. È una di quelle polemiche che più appassionano i politici: la lite sull’informazione televisiva in campagna elettorale, quella disciplinata dalla normativa sulla cosiddetta «par condicio» (vuol dire pari diritto di ogni forza politica ad accedere ai mezzi di informazione soprattutto in periodo di elezioni).

Sono giorni che infuria, questa polemica, e sembra che non abbia ancora raggiunto l’acme. Le opposizioni sono in grande agitazione contro quella che chiamano «TeleMeloni» e stanno promettendo fuoco e fiamme per contrastare il nuovo regolamento sulla par condicio per la campagna elettorale delle ormai vicine europee di giugno.

Sta di fatto che la maggioranza di centrodestra ha fatto approvare in Commissione di Vigilanza una norma che consente ai rappresentanti di governo il più ampio spazio nelle trasmissioni giornalistiche del servizio pubblico per esporre i problemi e le iniziative di loro competenza. Insomma, se un sottosegretario o un ministro si candidano a diventare parlamentari europei, possono andare in televisione sostanzialmente quando vogliono, purché, si intende, parlino delle loro competenze. Ma è facile immaginare che un membro del governo possa facilmente utilizzare le cose di cui si occupa magari per vantare i risultati raggiunti o prospettare i suoi progetti: è un vantaggio obiettivo che il Regolamento così riformato concede al governo a scapito delle opposizioni che, essendo tali, non godono dello stesso privilegio. L’emendamento in questione è stato votato dalla maggioranza con i dubbi e le riserve di Forza Italia per la ragione che i berlusconiani, avendo un solo ministero di grande visibilità, gli Esteri con Antonio Tajani, risultano svantaggiati rispetto ai loro colleghi che occupano poltrone da cui si prendono decisioni su questioni cruciali: l’economia, la difesa, l’agricoltura, i trasporti… Ma questi maldipancia forzisti sono stati superati dalla ferrea volontà di palazzo Chigi di garantire al governo il massimo di visibilità sulle reti della TV di Stato (paradossalmente la stessa regola non varrà per le private, per Mediaset e la 7) anche al di là delle vecchie garanzie istituzionali che erano già presenti nelle vecchie leggi sulla par condicio più volte rimaneggiate e sempre aggiornate in ogni campagna elettorale dall’Agcom (la normativa risale al 1993 ai tempi di Berlusconi in procinto di «scendere in campo» e di Scalfaro che voleva limitare la potenza di fuoco delle tv del Cavaliere).Come dicevamo, le opposizioni stanno pensando a qualche forma di ritorsione (il Pd aveva pensato di rifiutarsi di parlare ai microfoni del Tg1, poi ci ha ripensato essendo l’idea venata da una certa bizzarria suicidaria). Però non è che, anche in questo campo, Pd e M5S si fidino molto l’uno dell’altro. E per l’esattezza sono i democratici a sospettare che, sotto sotto, i grillini si muovano per avere qualche vantaggio in cambio di una linea più morbida nei confronti dell’emittente di viale Mazzini. Il colpaccio che si starebbe cercando di fare sarebbe quello di un passaggio di mani del Tg3 dal Pd al M5S.

Sarebbe una cosa rivoluzionaria, data la storia di quel telegiornale, segnerebbe una secca sconfitta per la segreteria Schlein e un grosso vantaggio per Conte che potrebbe contare proprio in campagna elettorale del sostegno di una testata tradizionalmente seguita dal pubblico spostato a sinistra al quale i pentastellati chiedono il voto proprio in alternativa al Pd. Per il momento si tratta di sospetti e nulla prova che siano fondati, tuttavia contribuiscono ad avvelenare il già complesso rapporto tra due partiti che dovrebbero essere alleati ma si scoprono ad ogni passo avversari e concorrenti.

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