Per fortuna c’è Mattarella, lo sgarbo del cavaliere

Il commento. Per fortuna c’è Mattarella, colui che ci protegge dall’alto del Colle. È questa la prima osservazione che si può fare all’improvvida uscita di Berlusconi, per il quale se il presidenzialismo entrasse in vigore «sarebbero necessarie le dimissioni di Mattarella per andare all’elezione diretta del Capo dello Stato». Poi, come da copione, il prestigiatore di Arcore ha cercato di ridimensionare l’esternazione, negando di aver attaccato il presidente e di volerne lo sfratto, spiegando che, con la riforma, l’elezione diretta del nuovo inquilino del Quirinale sarebbe una cosa «ovvia e scontata».

Può darsi (davvero?) che quella di Berlusconi sia una voce dal sen fuggita, in ogni caso si tratta di uno sgarbo istituzionale, una mancanza di rispetto verso Mattarella da parte di un uomo che, rientrato in scena dopo 9 anni di obbligata assenza dal Parlamento, si vorrebbe alla presidenza del Senato, seconda carica dello Stato. E un errore politico: dà involontariamente una mano a Letta, che ha posto la «questione democratica» nei confronti di questa destra, e mette in difficoltà l’«operazione credibilità» di Giorgia Meloni che, pur presidenzialista, s’è limitata a poche parole sulle virtù di questo sistema costituzionale, lasciando a La Russa il compito di abbozzare qualche distanza da Berlusconi. Un tentativo di trascinare le istituzioni nel frullatutto della campagna elettorale, una manovra d’accerchiamento verso Mattarella, da poco rieletto, l’impeccabile garante della tenuta democratica e dei valori repubblicani, destinatario di un gradimento molto alto dei cittadini? Il presidenzialismo è sempre stato un cavallo di battaglia di Berlusconi, oltre che della destra di derivazione missina, e l’entrata a gamba tesa del signore di Arcore reca l’impronta del passato che diventa la misura per interpretare il presente.

Resta il fatto che gli elettori votano per il Parlamento, non per il presidente del Consiglio il quale viene nominato dal Capo dello Stato

Accanto a questa vecchia opzione, legittima e democratica, il berlusconismo ha spesso mostrato disagio verso la Carta entrata in vigore nel 1948, rivelandosi non pienamente ancorato ai valori costituzionali e ai vincoli del parlamentarismo. Si sono viste forzature istituzionali, e ancora oggi, come il simbolo elettorale «Lega-Salvini premier»: si dirà che costituisce il frutto di un leaderismo estremo accettato per onorare la tendenza dei tempi, che è stato un vezzo improprio coltivato da più parti negli anni passati, ma resta il fatto che gli elettori votano per il Parlamento, non per il presidente del Consiglio il quale viene nominato dal Capo dello Stato. Il presidenzialismo è il terzo dei 15 punti del programma attuale del centrodestra, buttato lì alla meglio: «Elezione diretta del presidente della Repubblica». Punto, nient’altro, nessuna specificazione: presidenzialismo o semipresidenzialismo? Sembra che gli stessi interessati non ci credano più di tanto, o che tale sobrietà lessicale sia un mezzo per nascondere le divisioni, oppure che non abbiano piena coscienza di cosa significhi un cambiamento così strutturale, tanto che alcuni costituzionalisti ritengono sia necessaria una Costituente per mutare queste regole fondamentali.

Come osservano fior di giuristi (uno fra i tanti, l’ex presidente della Camera Luciano Violante) il presidenzialismo «senza una chiara distinzione dei poteri, si presta a forme di autoritarismo incompatibili con la nostra tradizione democratica»

Benché non faccia sognare i cittadini, questo sarà uno dei temi della campagna elettorale e si capisce perché il centrodestra punti alla vittoria napoleonica: con i due terzi del Parlamento può cambiare la Carta, senza ricorrere al referendum costituzionale. Sappiamo dall’esperienza (rivolgersi a Renzi) che la Costituzione è un patrimonio da curare con grande delicatezza e non ci si può affidare ai colpi unilaterali della maggioranza. Serve un largo e trasversale consenso. Il presidenzialismo fu scartato dai nostri costituenti per via (anche) della «paura del tiranno», pur essendo condiviso da alcuni eminenti membri del Partito d’Azione. Altri tempi, ma come osservano fior di giuristi (uno fra i tanti, l’ex presidente della Camera Luciano Violante) il presidenzialismo «senza una chiara distinzione dei poteri, si presta a forme di autoritarismo incompatibili con la nostra tradizione democratica». Non si tratta solo di eleggere direttamente la suprema magistratura, ma di riscrivere tutti gli equilibri costituzionali per ridefinire i rapporti con Camera e Senato, con le Regioni, con il potere giudiziario e con la Corte costituzionale. Si va a toccare tutto l’impianto, i nervi vitali, da cima a fondo. Si tratta di confezionare un vestito nuovo, di altra taglia per le istituzioni.

Il presidenzialismo è un modello frontale, non mediato, che accentua la polarizzazione della società: lo abbiamo visto con Trump. Funziona se alla base esiste una legittimazione reciproca fra gli avversari

I drammatici tormenti degli Stati Uniti e la debolezza di Macron privo di maggioranza in Parlamento dicono che stabilità ed efficacia, solitamente associati al presidenzialismo, non sono precostituiti in assoluto. Il presidenzialismo è un modello frontale, non mediato, che accentua la polarizzazione della società: lo abbiamo visto con Trump. Funziona se alla base esiste una legittimazione reciproca fra gli avversari. Si può dissentire che questa sia una priorità auspicabile per il costume e la sensibilità italiana. E poi c’è un problema storico: siamo sicuri che, sul piano dell’utilità politica, sia conveniente per la Meloni, per storia personale e della sua comunità politica che proviene dal vecchio Msi, intestarsi il cambiamento di quelle regole costituzionali scritte dai partiti del Cln sulla base di valori quali l’antifascismo? Detto in altro modo: per una leader tesa a rassicurare quell’opinione pubblica allarmata nei suoi confronti e che intende inserirsi nel conservatorismo classico europeo, non sarebbe imbarazzante o fuori posto (se toccherà a lei) un nuovo inizio, partendo proprio dall’archiviare il cuore della Costituzione antifascista?

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