Piano di pace italiano
Il no di Mosca e i desideri

La guerra in Ucraina, com’è ovvio, ha inasprito i toni anche negli ambienti diplomatici. Ma i politici russi non hanno aspettato l’invasione per manifestare il loro disprezzo per i colleghi europei. Basta ricordare il trattamento riservato a Josep Borrell, Alto rappresentante per la politica estera della Ue, nel febbraio del 2021: arrivato a Mosca incontrò il roccioso ministro degli Esteri Lavrov che nel frattempo, senza dirgli nulla, aveva espulso i diplomatici di Germania, Svezia e Polonia che aveva assistito alle udienze del processo contro Aleksey Navalny.

Il clima era già quello, la guerra lo ha drammaticamente confermato. Non deve quindi stupire se le reazioni russe al piano di pace presentato dall’Italia sono state così aspre e definitive. Ha cominciato l’ex presidente ed ex primo ministro Dmitrij Medevedev: «Preparato non da diplomatici ma da scienziati politici locali che hanno letto solo giornali provinciali e fake news ucraine». Poi a ribattere il chiodo è arrivato il solito Lavrov: «I politici seri che vogliono ottenere risultati e non sono impegnati nell’autopromozione di fronte al loro elettorato, non possono proporre questo genere di cose».

In realtà, il piano preparato dal premier Draghi e dalla nostra diplomazia in sé non ha nulla di «sbagliato». Esso prevede quattro tappe: un cessate il fuoco su tutto il territorio ucraino, la definizione di uno status di neutralità per l’Ucraina, la sovranità ucraina su Crimea e Donbass a loro volta dotate di una certa autonomia, un nuovo patto sulla sicurezza internazionale. È la road map verso la pace immaginata da un Paese che non combatte ma che, altrettanto certamente, non è «terzo» rispetto alla questione ucraina. L’Italia si è impegnata ad aiutare in ogni modo la difesa degli ucraini e politicamente difende il principio dell’intangibilità dei confini ucraini (si veda il Memorandum di Budapest, firmato nel 1994 da Eltsin, Clinton e Kravchuk) e dell’integrità del suo territorio. Non poteva quindi proporre altro che un tentativo di compromesso tra la realtà (Donbass e Crimea sono sotto il controllo di Mosca) e il principio (Donbass e Crimea sono parte del territorio ucraino), sotto forma di uno statuto di autonomia dentro l’Ucraina per quei territori.

Ma per la Russia, che alla causa della guerra sta sacrificando tantissimo, è troppo poco. Soprattutto in una fase della guerra che la vede all’offensiva e in cui l’Ucraina mostra di essere in evidente difficoltà. Kiev ha reagito al nostro piano meglio (non bene, ma meglio della Russia) perché in questa fase riaprire un processo negoziale, in un modo o nell’altro, è nel suo interesse. Ma Zelenskyj ogni giorno ribadisce che si comincerà a trattare solo quando i russi saranno rientrati sulle posizioni del 23 febbraio, prima dell’invasione, e che in ogni caso nessuna cessione di territorio è accettabile in nome della pace.

Di fatto, avendo il 20% del territorio sotto il controllo delle forze di occupazione, anche lui dice no al piano offerto dall’Italia. I russi considerano solo la realtà sul terreno, gli ucraini solo il principio legale. Ai fini della pace, poi, diventa del tutto inutile richiamarsi al diritto internazionale e ribadire che la Russia è l’aggressore e l’Ucraina è l’aggredito. È vero, ma saperlo non fa fare un solo passo avanti. Tanto più che nessun Paese europeo potrà proporre un piano molto diverso da quello italiano perché tutti, rispetto all’Ucraina, sono sulle posizioni dell’Italia. Si faccia avanti chi ha un’idea più brillante, ma dubitiamo che ci siano molti altri disposti a tentare. Molti politici inglesi, americani ed europei, nelle settimane in cui l’offensiva russa sembrava allo sbando, hanno detto che la questione si sarebbe risolta sul campo di battaglia. In questi casi, è sempre meglio stare attenti a esprimere dei desideri. Perché potrebbero anche avverarsi.

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