Prove di pace ma l’impresa della Cina si fa ardua

Mondo. La mediazione cinese ai massimi livelli è ormai ai blocchi di partenza, anche se, obiettivamente, non sono molte le possibilità di riuscita. Ma ci si proverà lo stesso a fermare la tragedia ucraina soprattutto perché i pericoli di allargare il conflitto stanno aumentando sensibilmente.

A meno di problemi dell’ultimo minuto, sempre possibili, la prossima settimana il presidente Xi Jinping vedrà di persona in Russia il collega Putin e successivamente avrà «contatti» ufficiali con l’ucraino Zelensky. Pechino intende per prima cosa ristabilire una relazione personale diretta tra il suo leader e i due capi di Stato belligeranti. Finora, nell’ultimo anno trascorso, soltanto Recep Tayyip Erdogan - la cui stella potrebbe spegnersi il 14 maggio con la celebrazione delle presidenziali turche - è riuscito ad avere un certo tipo di dialogo sia con Putin che con Zelensky. E grazie a questa linea di comunicazione si sono potuti stringere accordi per l’esportazione del grano ucraino via nave e per scambiarsi prigionieri.

L’inimicizia tra i leader è una delle componenti di questa crisi. Zelensky ha addirittura stabilito per legge di non trattare con Mosca, finché Putin sarà al Cremlino. Pesanti sono state pure le dichiarazioni pubbliche dell’americano Biden contro il presidente russo, noto per la sua poca simpatia per Obama, di cui l’attuale inquilino della Casa Bianca era stato il vice. In sintesi, la si è messa fin troppo sul personale: perciò Xi vorrebbe partire dal parlarsi guardandosi negli occhi. Ma francamente l’impresa appare ardua. Basta ricordare che Putin fu ospite di Xi alle Olimpiadi cinesi pochi giorni prima del 24 febbraio 2022 e, stando alla versione del «Celeste impero», non gli rivelò alcunché sulle sue reali intenzioni in Ucraina.

Il piano cinese in 12 punti, presentato in occasione del primo anniversario dell’inizio delle ostilità, è stato analizzato in lungo e in largo. Fondamentalmente sembra voler tentare di non scontentare alcuna parte in causa. Il primo obiettivo da raggiungere è il cessate il fuoco. Gli altri appaiono una sorta di equilibrismo diplomatico, interpretabili da russi e ucraini ognuno a modo proprio. In breve, una specie di «Minsk 3». Una tale intesa, se venisse raggiunta, significherebbe la riproposizione di un «conflitto congelato», come lo si è osservato per 7 anni con «Minsk 2», negoziato dall’Europa nel 2015. Da tempo Kiev ha ribadito che non accetterà una soluzione del genere, la quale di fatto darebbe alla Russia, ora in difficoltà, la possibilità di riorganizzarsi.

Il nodo centrale semmai è se Zelensky sarà in grado di riprendersi con la forza i territori perduti in Donbass, tra questa primavera e l’estate. Ecco perché le forniture di armi occidentali sono centrali nel suo progetto di «reconquista». E anche per questa ragione Kiev non ha alcuna intenzione di ritirarsi da Bakhmut, proprio per non far passare un messaggio di debolezza. Le due linee di difesa della piana con Kramatorsk e Slovjansk, oggi capitali del Donbass ucraino, sono comunque una garanzia.

Nonostante le apparenze l’opinione pubblica russa è stanca dell’«Operazione speciale» in Ucraina, da sempre Paese fratello, «Operazione» che sta buttando la Russia fra le braccia del secolare avversario cinese. Davvero un capolavoro ha compiuto Putin. Reduce dal successo diplomatico per il riannodarsi dei rapporti tra Iran e Arabia Saudita, irritata dalla nascita dell’Aukus - la «Nato del Pacifico» - Pechino ha finora tutto da guadagnare dalla crisi ucraina. Le basterà aspettare sulla riva del Dniepr i cadaveri dei contendenti.

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