Quel missile ci ricorda che l’Ucraina ci riguarda

MONDO. Prepariamoci a giornate di altissima tensione ad Est, le cui avvisaglie si sono avute ieri con l’attacco a Volodymyr Zelensky, e con l’appello di Yulia Navalnaya ai russi a protestare.

Già un paio di mesi fa personalità autorevoli avevano parlato del rischio di un’ulteriore escalation di violenza, ad inizio primavera, se non addirittura dell’allargamento dell’incendio ucraino ad altri teatri. Le presidenziali in Russia sono lo spartiacque, ma anche la ragione principale, del terremoto incombente. Ad esse vanno aggiunte la sensazione diffusa al Cremlino che Kiev sia in difficoltà dopo i successi tattici delle truppe di Mosca in Donbass e la certezza che il candidato repubblicano alle elezioni Usa sarà Donald Trump.

Le ennesime minacce di autorità federali sul possibile uso del nucleare, se lo Stato russo fosse in pericolo, rispondono solo all’insistente richiesta ucraina di ottenere dall’Occidente armi a lungo raggio in grado di colpire bersagli in profondità.

Da inizio gennaio Kiev, i cui maestri armieri erano famosi fin dai tempi dell’Urss, sta mettendo fuori uso sistematicamente con droni e vettori di propria fabbricazione le infrastrutture del petrolio e del gas dal Mar Nero al Baltico con una precisione sorprendente. Ieri è stata la volta di una delle maggiori fabbriche metallurgiche russe.

Sul territorio ucraino i militari di Zelensky utilizzano armi occidentali che in pochi mesi hanno provocato danni pesanti - stando a Kiev e in parte confermati da fonti indipendenti - alla flotta del Mar Nero e all’aviazione russa. Figurarsi se presto l’Ucraina, che riesce già a raggiungere siti ad oltre mille chilometri di distanza, fosse dotata di armi ancora più sofisticate. Tutti questi elementi, fin qui elencati, spiegano il perché siano stati elevati proprio adesso gli obiettivi messi nel mirino.

Che Volodymyr Zelensky sia da sempre uno di questi è arcinoto. Da quanto è stato raccontato pubblicamente, il presidente ucraino doveva essere posto in una condizione di non nuocere fin dai primi giorni della «Operazione militare speciale». Gli americani gli avevano per questo preparato una via per portarlo in salvo, ma Zelensky non ne volle sapere. Ed anzi, da allora ha indossato la famosa mimetica. I suoi movimenti sono segreti e cambiano di continuo.

L’attacco al porto di Odessa, dove si trovava ieri il leader ucraino in compagnia del premier greco, non è casuale, come potrebbe sembrare. È il segnale che i militari russi sono riusciti a bucare in qualche modo i sistemi di sicurezza delle comunicazioni occidentali.

Lo scandalo delle intercettazioni degli alti ufficiali tedeschi, che parlano della presenza di colleghi della Nato in Ucraina, divulgate ai quattro venti, è servito al Cremlino per rivelare il segreto di Pulcinella alla propria opinione pubblica nazionale a poche ore dal voto.

L’elemento fondamentale è, però, un altro: Mosca è in grado di ascoltare come ai tempi della Guerra fredda. E, da ieri, di incutere veramente paura agli europei, come quella provata dal premier Mitsotakis, che riferirà della sua «esperienza impressionante» ai colleghi comunitari.

Qualche politico occidentale finora può aver pensato che la tragedia russo-ucraina è qualcosa di lontano, visto in tivù, le cui conseguenze sono per ora sopportabili. Da ieri non è così. Mitsotakis potrà testimoniarlo in prima persona.

Ma attenzione: la Russia non è quel monolite che le cronache ufficiali accreditano all’esterno. Tutt’altro. Già nel giugno scorso la rivolta della compagnia «Wagner», comandata da Prigozhin, aveva scosso il potere fin dalle sue fondamenta, rischiando di farlo crollare in poche ore.

I funerali del dissidente Navalny – il primo marzo - non hanno avuto lo stesso impatto, ma hanno lo stesso mosso le coscienze. Vista la strategia repressiva seguita, il Cremlino teme l’«effetto Ceausescu», quando un fischio tra la folla diede il via alla rivoluzione romena. La vedova del politico anti-Putin ha invitato i russi alle 12 di domenica 17 ad andare a protestare alle urne. Navalny credeva nella democrazia; Prigozhin evidentemente no. Ma è poco probabile che, ora, un fischio a Mosca sia così destabilizzante come lo fu a Bucarest nel 1989.

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