Referendum giustizia, mani avanti sul risultato

ITALIA. Dicono tutti di non voler politicizzare il referendum sulla riforma della giustizia.

Ma non accadrà: nessun referendum si è mai concentrato solo sul merito delle questioni, ogni volta si è scatenata la lotta tra schieramenti. E figuriamoci se non accade questa volta con la riforma che concretizza i sogni di Berlusconi e gli incubi delle procure, vero obiettivo del testo approvato in soli 287 giorni, pochissimi per una modifica della Costituzione. Si voterà tra marzo e aprile e le danze sono già aperte con l’avvio della raccolta firme e le nomine a capo dei comitato referendari: per il «no» i giudici hanno designato un allievo di Gustavo Zagrebelsky, il costituzionalista Enrico Grosso dell’Università di Torino.

L’errore di Matteo Renzi

In realtà l’idea di «depoliticizzare» il referendum nasce da Giorgia Meloni, la prima a dire: i cittadini giudichino la riforma, non il governo e me. E si capisce: tutti hanno imparato dal clamoroso errore di Matteo Renzi il quale, convinto di avere in tasca la vittoria al referendum del 2016 sulla «sua» riforma costituzionale, disse: se non vinco mi ritiro, e così tutti i suoi nemici – e ne aveva tanti, più o meno come Meloni – si coalizzarono per dargli una sberla. Che, puntuale e sonora, arrivò sull’incredula faccia dell’allora premier.

La posizione delle Meloni

Meloni non vuol fare la stessa fine: sì, è convinta che il «no» sarà sepolto sotto una montagna di «sì» da parte di tutti quelli che pensano che le procure ormai hanno stravolto il loro ruolo e debordato dai loro compiti costituzionali con inchieste che non approdano a nulla ma che rovinano la vita delle persone e la reputazione delle aziende. Ma, pur sentendosi la vittoria in tasca, non vuole correre il rischio: se la riforma sarà bocciata, il governo non ne risentirà e andrà avanti. La premier ha messo le mani avanti per non cadere all’indietro, come dicono a Roma.

Le ragioni di Elly Schlein

Per ragioni uguali e contrarie anche Elly Schlein non vuole essere trascinata nel gorgo da una sconfitta. Già una volta è riuscita miracolosamente a non pagare pegno dopo il disastro dei referendum di Landini che il Pd ha nei fatti sostenuto e dunque perso insieme alla Cgil, ad Avs e alla sinistra radicale (Conte si è sfilato un attimo prima). Correre lo stesso rischio per andare dietro all’Anm significherebbe sfidare la sorte: no, se vinceranno i «sì» lei rimarrà al suo posto. Anche perché una bella fetta di riformisti del Pd, memore dei vecchi programmi elettorali, è rimasta fedele a quanto andò predicando in anni lontani, e cioè che sarebbe meglio dividere le carriere della magistratura inquirente da quella giudicante, quello che invece oggi viene considerato un atto quasi eversivo, un tentativo di «avere le mani libere» da parte del Governo, «una torsione autoritaria alla Orban», ecc. («Ma l’Anm non ha mai appoggiato una riforma della giustizia», ribatte Meloni).

Le regionali prime del Referendum

In ogni caso, prima del referendum di primavera ci sarà il turno amministrativo regionale in Campania, Veneto e Puglia. In Veneto non c’è partita, in Puglia nemmeno. La vera posta in gioco è la Campania dove Elly è riuscita a far fuori Vincenzo de Luca (70% di preferenze nel 2020, quasi due milioni di voti) a favore del debolissimo Roberto Fico in nome dell’alleanza con Conte. Perdere la Campania, quello sì che sarebbe un disastro per la segretaria democratica contro la quale si scatenerebbero tutte le correnti interne che si sono ricostituite e irrobustite in vista della battaglia congressuale e che aspettano solo il momento migliore per pareggiare i conti. Depotenziare il referendum per lei è un’operazione improba ma non impossibile. Depoliticizzare la sconfitta in Campania sarebbe tutta un’altra cosa.

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