Riforme, treno in affanno

ITALIA. Il treno delle riforme è ripartito e già rischia il deragliamento. Non sono soltanto i precedenti infausti a indurre al pessimismo. È che la partenza è avvenuta sotto cattivi auspici. Non solo l’opposizione è salita subito sulle barricate.

Ma la stessa maggioranza ha mostrato di avere poche idee e confuse e, anche quelle poche, divergenti. Pd e M5S non vogliono sentir parlare né di presidenzialismo né di premierato. Sono disponibili solo a un rafforzamento dei poteri del presidente del consiglio e alla sfiducia costruttiva, che eviti la caduta di un governo prima che non sia pronta un’alternativa capace di scongiurare lo scioglimento del Parlamento. Sul fronte della maggioranza, Giorgia Meloni difende il presidenzialismo mentre Matteo Salvini il premierato. Non sono differenze da poco.

A imbrogliare ulteriormente le carte c’è l’indeterminatezza assoluta di quali forme di presidenzialismo e di premierato si parli. Anche qui, il vago contribuisce a rendere più difficile il confronto tra le forze politiche. C’è il presidenzialismo all’americana che attribuisce al Capo dello Stato interamente i poteri dell’esecutivo. C’è poi la variante del semipresidenzialismo alla francese, dove formalmente esiste un capo del governo che deve godere della fiducia del Parlamento, ma sopra di lui c’è il presidente della Repubblica che, essendo eletto direttamente dal popolo, gode di una più alta legittimazione.

Come se non bastasse, nulla si dice sul bilanciamento dei poteri, necessario per scongiurare derive autoritarie. Per non farsi mancare nulla, la maggioranza ha trovato un altro modo per complicarsi la vita: bisticcia contrapponendo alla riforma dell’esecutivo la riforma delle Regioni. Una sorta di sfida tra presidenzialismo, bandiera di Fratelli d’Italia e autonomia differenziata, storico cavallo di battaglia della Lega. Un pasticcio, che serve su un piatto d’argento all’opposizione l’argomento di un governo che mette a repentaglio non solo l’eguaglianza di trattamento tra le diverse Regioni, ma persino i conti pubblici. A superare lo stallo, non aiuta nemmeno la proposta di Matteo Renzi del «sindaco d’Italia», una trasposizione al governo del Paese della formula adottata per i Comuni: due realtà, però, non perfettamente assimilabili. Nell’ombra resta la riforma elettorale, meccanismo complementare di ogni ordinamento istituzionale.

Possiamo consolarci con il dire: «Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione dunque è eccellente»? Non proprio. La grande confusione sta producendo al contrario una situazione piuttosto preoccupante. Non mette in gioco solo il destino delle riforme. Danneggia anche la democrazia. Una classe politica, concorde nel diagnosticare i malanni di un sistema di governo ma incapace di porvi rimedio, con buona pace della raffica di Bicamerali e di referendum finiti tutti male, firmerebbe la sua condanna. Aggiungerebbe altra fiamma all’incendio dell’antipolitica.

Governo e opposizione sono ancora in tempo per non sprofondare a braccetto nell’abisso del discredito. Non avrebbero alibi per l’ennesimo affossamento della riforma istituzionale. La maggioranza dovrebbe ammettere la sua impotenza. La minoranza avrebbe poco da compiacersi. Avrebbe scongiurato il temuto stravolgimento della Carta istituzionale, ma, pur involontariamente, avrebbe dato ulteriore forza a chi invoca l’uomo forte come unica soluzione ai mali cronici del Paese.

© RIPRODUZIONE RISERVATA