
(Foto di EPA/GUILLAUME HORCAJUELO)
MONDO. Un’America aggressiva, un’Europa fino a ieri disarmata e che adesso, con Ursula von der Leyen, promette lo scatto di reni in quel «dobbiamo essere forti».
Eccoci alla scadenza fatidica della pausa dei dazi punitivi che chiude la tregua negoziale di 90 giorni consumati fra escalation, marce indietro, guizzi d’imperio della Casa Bianca. Tutti sospesi agli umori e al «buon cuore» del presidente americano. Trump ha inviato le prime lettere, dal tono «prendere o lasciare», in cui impone tariffe aggiuntive del 10% contro i Paesi allineati ai Brics, il Sud globale, e del 25% per Giappone e Corea del Sud.
Fin qui gli Stati Uniti stanno incassando tariffe reciproche del 10% su circa il 70% dei prodotti Ue, del 25% sulle auto e componenti del Made in Ue e del 50% su acciaio e alluminio
In un clima incerto, la riscossione dei dazi più pesanti, a partire da quelli nei confronti dell’Europa, dovrebbe essere rinviata al primo agosto. Con l’Europa, per ora, non c’è alcuna intesa: l’Ue puntava a chiudere il negoziato, con un dazio base del 10% più alcune esenzioni o riduzioni settoriali in cambio dell’acquisto di più prodotti Usa, consapevole di avere le armi spuntate per orchestrare una ritorsione. Fin qui gli Stati Uniti stanno incassando tariffe reciproche del 10% su circa il 70% dei prodotti Ue, del 25% sulle auto e componenti del Made in Ue e del 50% su acciaio e alluminio. Un male minore, è l’idea minimalista prevalente, in termini di riduzione del danno, comunque dazi asimmetrici, un altro prezzo proibitivo nel conto dell’imprevidenza europea.
Fra la girandola di dati, le stime del presidente di Confindustria, Orsini, dicono che rischiamo di perdere 20 miliardi di export e 118mila posti di lavoro. I più esposti Italia e Germania, che hanno costruito la loro ricchezza sulle esportazioni. Da tempo, e ancora di più con la seconda presidenza Trump, sta andando a compimento una ridefinizione profonda della politica estera americana in cui l’Europa diventa periferica. Il blocco del Vecchio Continente è visto più come concorrente e meno come alleato. Per noi, nella migliore delle ipotesi, gli Stati Uniti sono diventati un alleato riluttante.
Gli stessi mercati iniziano a scontare un cambiamento strutturale delle due economie. Gli Usa di Trump (nazionalisti, protezionisti e all’occorrenza interventisti come s’è visto in Iran), per la prima volta da decenni affrontano una crisi di credibilità: la svalutazione del dollaro, obiettivo strategico del presidente per facilitare l’export e riequilibrare la bilancia commerciale, indica anche un calo di fiducia verso la moneta di riserva globale. Il capo della Casa Bianca, però, non sta pagando i costi politici. All’Europa si presenta una finestra di opportunità irripetibile per ritagliarsi un nuovo ruolo da protagonista: si dice sempre così, più auspicio che realtà. Come afferma l’ex eurocommissario Gentiloni, l’Europa si trova in trappola fra due fuochi, una situazione senza precedenti da 80 anni: la guerra della Russia contro l’Ucraina, che un quarto degli Stati Ue vive come un rischio per la propria integrità, e contemporaneamente la sfida degli Usa sul piano economico e commerciale, mentre si va esaurendo il loro impegno per la sicurezza dell’Europa.
Gli europei si sono rivelati supini, fino a imbarazzanti cadute di stile, accettando di portare al 5% del Pil la spesa militare nell’ambito Nato, sebbene pochi siano in grado di farlo: tutto ciò per tenere a bordo Trump e nella speranza di ammorbidirlo sulla guerra commerciale
Trump scarica sulle periferie del mondo gli oneri della propria strategia: in sostanza ai «parassiti» europei viene imposto di pagare gli sgravi fiscali della recente legge di Bilancio a favore dei ricchi e delle corporations. Gli europei si sono rivelati supini, fino a imbarazzanti cadute di stile, accettando di portare al 5% del Pil la spesa militare nell’ambito Nato, sebbene pochi siano in grado di farlo: tutto ciò per tenere a bordo Trump e nella speranza di ammorbidirlo sulla guerra commerciale.
L’Ue somma i limiti di sempre a nuovi problemi politici. Continua la paralisi decisionale dettata dal vincolo dell’unanimità e dal trasferimento di potere dalla Commissione (organo sovranazionale) al Consiglio (che rappresenta i singoli Stati). Il Rapporto Draghi è «in un cassetto chiuso a chiave», precisa Prodi. L’intenzione del debito comune per rafforzare la Difesa è contrastata dalla pur promettente Germania del cancelliere Merz. L’autonomia strategica invocata da Macron non piace più di tanto, in quanto dal sapore gollista. La lezione storica è stata appresa, tuttavia l’Ue fatica ad alzarsi in piedi. La presidente della Commissione, von der Leyen (del Partito popolare, il gruppo più importante), ha perso lo smalto della prima legislatura e ora deve fare i conti con i malumori dell’Europarlamento. Giovedì si vota una mozione di sfiducia nei suoi confronti e poi ci sarà l’esame del Bilancio (della discordia) da varare.
La frammentazione tra le grandi famiglie politiche chiude ogni prospettiva di cambiamento. Alla coalizione centrista che sostiene la signora Ursula si sovrappone l’ambigua politica dei «due forni» adottata dai popolari che usano i voti delle destre per ridimensionare la transizione verde e inasprire le norme sull’immigrazione. I socialisti sono divisi sulle politiche di Difesa, con posizioni conflittuali anche all’interno delle rappresentanze nazionali (è il caso del Pd).
In più le inchieste giudiziarie scuotono il governo spagnolo, l’unico esecutivo a guida socialista, con la Danimarca, in Europa. Un momento con la febbre collettiva, nella gravosa combinazione fra l’assedio di Trump e gli indizi di un logoramento politico che potrebbero influire sui rapporti di forza a Bruxelles.
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