Sull’Ucraina dibattito pubblico scadente

Non è serio dare in pasto ai talk show il conflitto in Ucraina, con il suo carico di immani tragedie e violenze inaudite. Tanto più se all’operazione si allinea anche la Rai, il servizio pubblico che dovrebbe mantenere uno stile informativo misurato. La lezione del Covid non è servita a niente.

Lo schema di questi format è collaudato: si mettono sul «ring» due o più esperti (non sempre tali per la verità), tanto meglio se narcisi e impulsivi, e si dà il via al dibattito, che presto scade in una sovrapposizione di voci, una cacofonia che rende gli argomenti incomprensibili, quando non degenera addirittura nella rissa verbale. Almeno la Commissione parlamentare per la vigilanza dei servizi radiotelevisivi si è accorta di questa deriva ed ha proposto un cambiamento in cinque punti: ospitare in trasmissione solo persone di comprovata competenza e autorevolezza; prevedere una rotazione delle presenze per favorire la pluralità delle voci; privilegiare presenze a titolo gratuito; evitare la rappresentazione teatrale degli opposti e delle contraddizioni, alla ricerca della spettacolarizzazione e del dato di ascolto; contrastare la disinformazione, garantire la veridicità delle notizie e delle fonti, puntando ad assicurare l’equilibrio corretto delle posizioni esposte. Un tentativo per «uscire dal format delle tifoserie che domina tutti i talk», ha osservato Francesco Siliato, patron di Studio Frasi, specializzato nell’analisi dei dati radio e tv: «Ormai alla riflessione si preferisce il dibattito urlato, sperando di far salire gli ascolti. Ma non funziona: con la guerra lo share dovrebbe schizzare alle stelle e invece spesso accade il contrario. Chiaro il motivo: su temi complessi i battibecchi creano solo confusione, non aiutano la comprensione e la gente cambia canale». Nei talk show manca poi il senso del dramma: si è riusciti a litigare anche sulle immagini strazianti delle esecuzioni di persone, compresi i bambini, nella cittadina ucraina di Bucha. C’è poi una confusione tra le opinioni e i fatti: le prime sono giudizi personali, i secondi avvenimenti inoppugnabili. E nel format da ring prevalgono spesso più i primi che i secondi.

In generale il dibattito pubblico sull’invasione russa di uno Stato sovrano è scadente. Parte della politica è afona, attonita e spiazzata. Il confronto sull’invio di armi agli ucraini ha risposto più a esigenze di tenere compatti i partiti che all’utilità dell’operazione. Ci sono omissioni sui rapporti con Vladimir Putin in passato e sull’inerzia della politica estera rispetto a un conflitto la cui miccia si era accesa nel 2014 in Donbass e in Crimea. Non si percepiscono in tutta la loro gravità le ricadute che la guerra avrà nel ridefinire alleanze internazionali e disegni geopolitici. Paghiamo ancora una volta dazio al provincialismo italiano, incapace di guardare in profondità il mondo e di decidere quale deve essere la collocazione italiana.

Il dibattito poi ha un raggio corto. Si discute della Nato e degli Stati Uniti, delle loro responsabilità nelle relazioni con Mosca ma non si analizza la deriva della controparte, che è pur sempre l’aggressore.

Il dibattito poi ha un raggio corto. Si discute della Nato e degli Stati Uniti, delle loro responsabilità nelle relazioni con Mosca ma non si analizza la deriva della controparte, che è pur sempre l’aggressore. Nei talk show non si sente la voce dei dissidenti e dei giornalisti russi costretti ad espatriare perché contro il conflitto e per non sottostare al giro di vite del Cremlino contro l’informazione, per cui chi parla o scrive il termine di guerra invece che di operazione militare rischia 15 anni di carcere. Putin viene nominato genericamente autocrate o dittatore ma non si cita il saggio rintracciabile sul sito del Cremlino in cui definisce l’Ucraina un non Stato parte della Russia. Domenica invece è stato pubblicato da «Ria Novosti», una delle agenzie di stampa più note in Russia, un commento dal titolo «Cosa dovrebbe fare la Russia con l’Ucraina», di Timofey Sergetsev, scrittore falco del putinismo, che spiega cosa intende Mosca per denazificazione. Secondo l’articolo, la guerra ha mostrato che lo sforzo di denazificare l’Ucraina non può essere applicato soltanto alla leadership del Paese, ma va esteso alla maggioranza della popolazione. Queste parole hanno trovato la loro applicazione a Bucha. Per Sergetsev denazificazione vuol dire anche deucrainizzazione: la nazione deve perdere il suo nome, anche perché è solo un costrutto artificiale antirusso, e deve rinunciare anche ai suoi legami con l’Occidente e con l’Europa. È un pensiero diffuso non solo negli ambienti del Cremlino ma condiviso anche dal Patriarca di Mosca Kirill, che oltre a benedire la guerra, crede nella «Russkij mir», un mondo russo unitario che ha in Kiev la sua origine storica. Ma forse sono argomenti noiosi per i talk show.

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