Tensioni e manovre, sullo sfondo le Regionali

ITALIA. L’ultima puntata di «Report» è diventata un motivo di scontro politico, reso ancora più infuocato dalla coincidenza con la campagna elettorale per le regionali di novembre, con il varo della manovra di bilancio e con il prossimo referendum sulla riforma della giustizia approvata dal centrodestra.

Dunque, l’inchiesta di Sigfrido Ranucci sul retrobottega del Garante della privacy - quello stesso che lo aveva multato per 150mila euro dopo la trasmissione di una intercettazione tra Gennaro Sangiuliano e sua moglie sul «caso Boccia» - ha fatto emergere un contesto talmente imbarazzante che ormai sembra che i quattro componenti del Garante siano prossimi alle dimissioni. Da ricordare che i quattro presi di mira dai giornalisti di Report sono espressione ciascuno di un partito: Pd il presidente, FdI, Lega e M5S gli altri. Il Garante, come ha sarcasticamente ricordato Giorgia Meloni, fu designato dal Parlamento (quindi dai partiti) durante il governo giallo-rosso presieduto da Giuseppe Conte. Il quale ora, come Elly Schlein, si erge a Catone il Censore per chiedere l’azzeramento dell’Autorità e punta il dito contro il commissario di espressione della destra (Ghiglia, quello che si è fatto riprendere mentre andava da Arianna Meloni il giorno precedente la multa a Report: ma non esistono i telefoni?) cercando di trasformare questo in uno scandalo «della destra» e dimenticando che l’altro commissario torchiato davanti alla telecamera di Report, un avvocato d’affari, fu scelto proprio dal suo partito. Come dal Pd fu indicato l’azzimato prof. Schiavone, il presidente, quello stesso che va a comperare il filetto dal macellaio più caro del centro di Roma e paga con la carta di credito dell’ufficio.

Lo scontro elettorale

Insomma, nessuno ci fa una bella figura, ed è questa la ragione che ci fa pensare che i quattro saranno tra poco accompagnati alla porta per essere sostituiti da altri quattro, naturalmente anche loro scelti dai partiti, e vedremo se questa volta gli incauti lottizzatori di maggioranza e di opposizione della Terza Repubblica, finalmente ci azzeccheranno, come avrebbe detto Di Pietro. Dicevamo dello scontro elettorale in corso cui «Report» ha fornito benzina: naturalmente buona parte delle polemiche si concentrano sulla manovra. Di fronte all’opposizione che protesta per una finanziaria «che avvantaggia i ricchi», si ribella il ministro dell’Economia Giorgetti, uomo di solito piuttosto parco di parole, e all’unisono con Meloni si chiede se possa essere considerato ricco in Italia un lavoratore dipendente che porti a casa 2mila-2.500 euro netti, cioè chi riceverà il maggior sconto dalla diminuzione dell’aliquota Irpef per lo scaglione fino a 50mila euro lordi all’anno. Inoltre Meloni risponde a chi parla di «manovrina» (circa 18 miliardi) e ricorda perfidamente che il governo avrebbe potuto fare una «manovrona se non ci fossero da pagare i 40 miliardi di crediti «del geniale superbonus di Conte». Il quale gode sì del comodo ruolo di chi accusa, ma nello stesso tempo deve difendersi dai suoi stessi militanti: la foto pubblicata in cui lo si vede ridente, lui e il candidato in Campania Roberto Fico, nientemeno con Clemente Mastella, simbolo della «casta dei politici della Prima Repubblica», ha scatenato un putiferio nella base ex grillina: «Ecco come ci siamo ridotti» è stato il commento degli increduli militanti.

Forse anche questo è un motivo che fa pensare a Meloni che la Campania sia diventata una regione contendibile dopo il forzato esilio del governatore De Luca e le liti nel campo largo. Altra storia invece in Puglia - ieri si è tenuto a Bari un comizio di tutti i leader della maggioranza - dove il democratico Decaro viaggia con oltre dieci punti si vantaggio sul suo concorrente di centrodestra.

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