Terra Santa, solo il Papa si appella alla giustizia

Attualità. Quaranta morti scivolati via nell’indifferenza generale solo dall’inizio dell’anno. Trentadue palestinesi e sette israeliani, più l’ultimo Karam Salman, 18 anni, ucciso da un colono israeliano pochi minuti prima dell’ultimo drammatico appello di Papa Francesco per chiedere di fermare la violenza.

La guerra in Ucraina è l’unica che tiene banco. Bergoglio invece riesce a riunire i drammi, a considerare le sofferenze senza distinguere tra geopolitiche. Ieri (domenica 29 gennaio) ha parlato del Medio Oriente, dell’Ucraina e dell’ultima tragedia umanitaria, quella del «Corridoio di Lachim», Caucaso meridionale dove oltre 100mila persone sono intrappolate nel gelo dalla guerra infinita tra azeri e armeni. Per sapere come stanno le cose e vergognarsi della nostra coscienza internazionale bisognare gettare l’occhio sulla finestra aperta a mezzogiorno su Piazza San Pietro. Ma la voce del Papa sul conflitto in Terra Santa è purtroppo anche la conferma che è un’illusione la possibilità di riportare la questione palestinese al tavolo delle diplomazie. I morti, la violenza quotidiana dell’occupazione israeliana stanno sbaragliando «i pochi spiragli di fiducia», che ancora resistevano tra i due popoli. Quella del Papa non è una previsione, è la constatazione di un’amarissima realtà, in un intreccio di assalti e vendette con i morti palestinesi che aumentano sproporzionalmente ai morti israeliani.

Siamo alla catastrofe, con l’esercito israeliano che ogni giorno va all’attacco nei Territori e ingaggia battaglia. Il biglietto da visita del nuovo governo dell’ultra destra guidato da Benjamin Netanyhu prevedeva l’escalation che puntualmente è arrivata, con la comunità internazionale voltata dall’altra parte. Nessuna indignazione reale nemmeno quando il ministro per la Sicurezza Ben Gvir, il più radicale dei radicali, meno di un mese fa è andato a «passeggiare» sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme per rivendicarne la proprietà ebraica come Spianata del Tempio. Era già accaduto, ma la storia da quelle parti non è maestra di niente. Le «operazioni di sicurezza» diventano «massacri» e chiamano vendetta, in una spirale d’odio senza fine. Né vale indignarsi perché nella Striscia di Gaza hanno festeggiato l’attacco alla Sinagoga di venerdì scorso. Piuttosto è meglio domandarsi perché mai è stato avviato un processo politico basato su principi di giustizia. Con il governo più a destra della storia di Israele, tutto si è complicato e anche a Gerusalemme è tornata la paura. Tre giorni fa un gruppo di coloni è entrato da Porta Nuova e ha molestato turisti, rovesciato tavoli di bar e ristoranti nella via del Santo Sepolcro. La polizia è arrivata dopo un’ora. Gli Ordinari cattolici di Terra Santa hanno scritto di una città «ostaggio di gruppi radicali». Il clima è pessimo e il futuro non promette nulla di buono.

Tra palestinesi e israeliani il dialogo è interrotto. Abu Mazen è sempre più debole e la sua successione (ha 87 anni) si presenta come una resa dei conti dove gli estremisti conteranno di più. In Israele è già accaduto. I capi delle Chiese cristiane sono convinti che la violenza «continuerà e si intensificherà», perché israeliani e palestinesi sono stati lasciati soli e i più eversivi degli opposti campi stanno occupando il posto in prima fila. L’Europa è sparita, l’America fatica. Oggi arriva in Medio Oriente il segretario di Stato Blinken. Chiederà ai palestinesi di tornare a collaborare con Israele per contrastare Jihad e Hamas in cambio di niente. Di ritiro israeliano, di pace e di giustizia, insomma di trovare «senza indugio» (parole di Francesco) una qualche strada per un nuovo processo di pace nessuno parla più.

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