Violenza giovanile
le comunità riflettano

Non può essere sempre e solo l’isolamento «da Covid» ad aver fatto perdere ai nostri giovani la capacità di reagire alle quotidiane difficoltà della vita, armandoli di un’aggressività improvvisa e spesso inaspettata. Certo, può aver contribuito esasperando condizioni rimaste sottotraccia per lungo tempo, senza che nessuno ne avesse consapevolezza, ma non si può archiviare frettolosamente quanto sta accadendo ai nostri giovani in una casellina con scritto sopra «disagi post pandemia». Così come non bastano le torride temperature di questi ultimi giorni per giustificare lo scatenarsi di istinti aggressivi, notoriamente più facili a manifestarsi proprio durante i periodi di maggior caldo. Dietro le tragedie di Bergamo e di Treviglio (resa ancora più nera dal fatto che chi ha ucciso ha tolto la vita alla propria madre), c’è di più, deve esserci di più, necessariamente. È vero, ce lo dice anche la medicina, la corteccia cerebrale dei giovani è più sottile rispetto a quella degli adulti, e dunque è «naturalmente» più sensibile, pronta a reagire alle sollecitazioni con maggior impulsività, ma tutto ciò non può essere sufficiente a far sì che la capacità di parlare, di ragionare, di mediare, di riflettere, di capire la posizione dell’altro non faccia più parte del bagaglio degli adolescenti, immaturi per definizione, certo, ma molto più «svegli» che in passato.

E allora perché accadono drammi umani così devastanti? Perché? La domanda ce la poniamo tutti, almeno fintanto che leggiamo la pagina di giornale che dà conto di quanto successo, ma una risposta vera, autentica, capace di far luce sull’oscuro abisso da cui è emersa così tanta violenza, non c’è, né mai ci sarà. Psichiatrici, psicologi, psicanalisti, criminologi e specialisti di questa o quella ansa della psiche umana ci daranno la loro «inequivocabile» lettura di quanto successo in via Novelli o in via Buttinoni, ma potrà davvero essere la risposta che andiamo cercando? Potrà forse essere una chiave di lettura, una delle tante possibili, ma non la risposta ultima, capace di squarciare le tenebre che avvolgono questi dolorosi misteri.

I freddi termini tecnici utilizzati da chi indaga – «omicidio volontario aggravato da futili motivi» – sintetizzano brutalmente in sei parole una tragedia immensa, un enorme «buco nero» fatto di dolore e di sofferenza, in cui – più o meno inconsciamente – ci dobbiamo finire un po’ tutti anche noi, anche le comunità di questi giovani, a cui un raptus improvviso ha rovinato per sempre la loro vita, il futuro che hanno davanti a sé. Non solo i familiari più stretti, i parenti più vicini, gli amici più cari, ma ciascuno di noi è chiamato ad interrogarsi e a sentirsi messo in discussione davanti a episodi come questi. Non perché «colpevole» del fatto specifico, ma perché di fronte a drammi di queste dimensioni non basta l’umana pietà (spesso, purtroppo, solo momentanea), ma occorre chiedersi cosa fare, o cosa non abbiamo fatto, perché ciò che avvenuto non capiti o per evitare che avvenisse. Senza dimenticare che questa aggressività s’è depositata un po’ in tutti noi, accumulandosi nel corso degli anni senza mai riuscire a smaltirla, complice anche l’effetto dell’ambiente esterno malato.

Omicidi come quelli avvenuti in questi giorni, che tolgono la vita alla vittima ma anche al suo uccisore (sì, anche a lui…), devono comunque interrogare le comunità che stanno attorno ai protagonisti sul perché non siano state capaci di cogliere in tempo la fragilità di questi ragazzi, alle prese con un disagio, soprattutto psicologico, «trasparente» a tutti. Accusare, recriminare, tranciare giudizi sommari non serve a nulla in queste circostanze, se non a «fertilizzare» un terreno di coltura buono solo a far crescere luoghi comuni e stupidi pregiudizi.

Così come non serve a nulla liquidare il tutto dietro un «banale» episodio di follia. Perché, come ha detto Franco Basaglia – l’uomo che ha rivoluzionato l’assistenza psichiatrica nel nostro Paese –, «la follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione», non possiamo fare finta di dimenticarcene. E men che meno servirebbe classificare quanto avvenuto nell’arco di soli sette giorni come un terribile e brutale atto di violenza, di quella che è sempre esistita, da che mondo è mondo, da Caino in poi. Sarebbe solo un comportamento pilatesco.

Tutti noi, e soprattutto le «agenzie educative» fondamentali per la crescita dei nostri ragazzi – la famiglia e la scuola, tanto per essere chiari –, non possiamo più permettercelo. Al contrario, dobbiamo tornare ad insegnare un senso di reale responsabilità, un senso di collettività vero e universale, dobbiamo insegnare a coltivare una coscienza che riconosca il valore dell’altro e il rispetto reciproco, dobbiamo educare all’ascolto, al dialogo, al confronto, cominciando a lasciare il virtuale fuori dalla porta. I «leoni da tastiera» che sui social e in rete fomentano odio e spandono «liquami», forti dell’anonimato che paradossalmente li protegge (ma lo Stato dov’è?), devono essere messi alla porta con la necessaria fermezza. Un tempo questo genere di «odiatori» era racchiuso in un recinto tutto sommato sotto controllo o agevolmente controllabile. Oggi invece, giorno dopo giorno, sta pian piano avvelenando la società globale, sempre più mal disposta a rispettare le civili regole della convivenza. E i risultati sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti. Diamoci un taglio, ne va del futuro dei nostri ragazzi. Ne va del futuro della nostra società.

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