Gang giovanili, fenomeno da monitorare

La ricerca. Il rapporto di Transcrime, centro studi sulla criminalità della Cattolica, lo segnala anche in Bergamasca. Don Dario Acquaroli: «In provincia i gruppi non sono radicati, ma il fenomeno è fluido ed è molto in evoluzione».

Sulla mappa, ora anche Bergamo inizia a far capolino. È la geografia delle gang giovanili: segnali si scorgono anche in terra orobica, più per «contagio» con Milano o Brescia che per effettivo radicamento. Basta scorrere le pagine della cronaca, dalle faide tra trapper ai «blitz» più o meno sporadici di altre gang, dalle schermaglie virtuali dei social alla concretezza reale dei coltelli e della violenza. Nelle scorse settimane un punto di partenza oggettivo è stato tracciato da Transcrime, il centro di ricerca sulla criminalità dell’Università Cattolica di Milano, che in collaborazione con il ministero dell’Interno e il ministero della Giustizia ha messo nero su bianco il primo rapporto sulle «gang giovanili in Italia». E in una serie di mappe, elaborate sulla scorta delle risultanze delle forze dell’ordine, le gang giovanili in Bergamasca sono indicate come «presenti», e con un «trend di presenza aumentato», seppur con un radicamento ancora «sporadico». Insomma: segnali ci sono, anche se non è ancora un’emergenza. Ma proprio perché gli indizi si scorgono e la situazione non è conclamata, la prevenzione è fondamentale.

Lo racconta chi quotidianamente si confronta col disagio giovanile nelle sue forme più manifeste, quando sfocia cioè anche nel penale. Per don Dario Acquaroli, direttore della Comunità don Milani di Sorisole, realtà che accoglie minori segnalati dall’autorità giudiziaria, parte da qui: «Questa ricerca è un punto importante per tutti noi, perché permette di tracciare in un modo più definito, anche a livello nazionale, alcuni aspetti che si fatica ancora a capire. L’osservatorio che abbiamo tutti è che ci sono differenze enormi tra i diversi contesti e tra le stesse gang».

«Rischio emulazione»

Dal contesto nazionale a quello locale: «In Bergamasca questi gruppi non sono radicati, ma il fenomeno è molto in evoluzione e molto dinamico e per questo va monitorato, anche per la possibilità che si creino situazioni di emulazione – sottolinea il sacerdote -. Non dimentichiamo comunque che nei gruppi di Milano o Brescia, più strutturati, ci sono anche dei ragazzi di Bergamo, e che questi gruppi da fuori provincia possono agire anche sul nostro territorio. I ragazzi si conoscono tutti, che siano di Bergamo, Brescia o Milano: se non direttamente, ci sono conoscenze in comune. Questo pone una grossa riflessione: anche tra città vicine si osserva un forte scambio, la situazione è molto fluida e dinamica».

Il vissuto dei singoli componenti intreccia di frequente dei punti in comune. «In questi giovani – prosegue don Acquaroli – molto spesso si ritrovano problematiche familiari o con il sistema scolastico. Ma non possiamo scaricare tutto sulle famiglie: c’è un insieme di agenzie educative che, tra di loro, possono permettere un percorso educativo comune. Questi giovani sembrano avere molte difficoltà relazionali, di fondo c’è un contesto sociale ed economico molto disagiato». In tutto ciò «i social network giocano un ruolo molto importante», spiega il sacerdote, «perché possono determinare sia processi di visione sbagliata della realtà, sia processi imitativi. C’è chi riconosce lo stesso contesto di disagio ma vede che quella persona «ce l’ha fatta», e allora la prende come esempio e la emula, anche se è un esempio sbagliato. I reati che si commettono hanno un paradosso: vengono commessi assieme perché nel gruppo trovo un’identità, ma si compiono verso altri non riconoscendo l’identità della vittima».

Il disagio psicologico

C’è una dimensione profonda in queste manifestazioni di violenza, e profondo è il lavoro di ricerca per risposte adeguate. «Si fatica ad aiutare questi ragazzi ad avere uno sguardo più “vero” verso la realtà. Ciò richiede un lavoro enorme di conoscenza: non funziona minimamente il linguaggio che dice, in maniera cattedratica, ciò che è sbagliato e ciò che è giusto – ragiona don Acquaroli -. Occorre un lavoro di rilettura dell’esperienza molto più ampio, che possa permettere di vedere la realtà anche in un altro modo, per scegliere cosa fare». Si fanno i conti anche con le conseguenze della pandemia: «In tutto ciò – conclude don Acquaroli -, un elemento è sempre più presente: la fatica psicologica, che può diventare anche fatica psichiatrica. Con la pandemia è esplosa. Purtroppo a livello sanitario regionale non c’è la possibilità di una piena presa in carico di questi ragazzi: mancano strutture, mancano risorse. È un limite che si spera possa essere risolto, ma che produce degli effetti».

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