Paolo Cognetti: «Il ritorno dei giovani (e del lavoro): chi vive in montagna lo ha fatto per scelta»

L’intervista per «Terre alte». L’inchiesta sulla montagna de «L’Eco di Bergamo». Parla Paolo Cognetti: i suoi libri hanno venduto milioni di copie. «L’alta quota? La vorrei irraggiungibile, non si deve arrivare dappertutto».

«Sul sentiero mio padre mi lasciava camminare in testa. Mi stava dietro un passo, così che potessi sentire una sua parola quando serviva e il suo respiro alle mie spalle». Con «Le otto montagne», una storia di vita, famiglia e amicizia, Paolo Cognetti ha vinto nel 2017 il «Premio Strega» e venduto oltre un milione di copie nel mondo. Un libro, tradotto in oltre 35 lingue, che ne ha fatto uno degli autori più seguiti nel panorama italiano e non solo: l’adattamento cinematografico di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, con protagonisti Alessandro Borghi e Luca Marinelli, forse «la meglio gioventù» degli attori italiani, ha vinto il premio della Giuria al Festival di Cannes.

La storia di Cognetti dice molto del rapporto tra l’uomo e la montagna: milanese di nascita, classe 1978, dopo gli studi in Matematica prima e alla Civica scuola di cinema di Milano poi, si è dedicato alla realizzazione di documentari prima di affrontare la scrittura. Da quando ha lasciato, per scelta, il capoluogo lombardo vive a Estoul, una frazione del comune valdostano di Brusson, dove ha realizzato e gestisce un rifugio culturale. Lo scorso novembre ha presentato il suo ultimo romanzo, «La felicità del lupo» alla Cooperativa Città Alta di Bergamo ed è stato recentemente protagonista del Festival della Letteratura di Mantova.

Di montagna non scrive soltanto, a un certo punto della sua vita ha capito che quello era il posto dove voleva stare e vivere. Ecco, si parla sempre di futuro della montagna, ma non rischia di essere diventato un concetto quasi passatista? La montagna non sta già vivendo un proprio futuro?

«In effetti quelli che non la conoscono forse la immaginano ancora come un luogo fermo nel tempo, con le sue tradizioni, il folklore, la polenta eccetera…»

In realtà, invece?

«In realtà la montagna è già cambiata e continua a cambiare. Il paesaggio non troppo, per fortuna, l’umanità sì. E questo è molto interessante».

E come è cambiata?

«Resta ancora un luogo profondamente spopolato, ma comunque più giovane. Dove esiste un minimo fenomeno di ritorno, del quale io per esempio faccio parte, che vede protagonista i giovani che vedono nella montagna una possibilità di una vita diversa. Più libera, autentica, più nostra. Un luogo dove le persone hanno sì sogni, progetti e un’idea di futuro, ma anche un lavoro: non solo il luogo della vacanza, del tempo libero, della pace e del silenzio».

Quindi niente fuga dalla civiltà alla ricerca di un buen retiro?

«Ma no, le nostre montagne sono comunque a due ore d’auto al massimo dalle città. Se si vuole davvero fuggire dalla civiltà uno va in Canada o Alaska, lì sì che sei a centinaia di chilometri dalla prima casa e vivi davvero in una capanna nei boschi. Da noi la montagna è comunque in costante comunicazione con le città, e da millenni, mica da altroieri: c’è uno scambio fitto e continuo, questa è la nostra storia. Poi magari la mia è una visione necessariamente limitata, vivo in Valle d’Aosta e in un territorio che sta lavorando molto con il turismo».

Ma quale turismo serve per la montagna? Non sta prendendo piede un modello troppo da parco giochi? Struscio, negozi, aperitivo, cabinovie…

«Questione interessante. Il modello che noi italiani abbiamo ancora in testa è in effetti quello del parco divertimenti, quindi pensiamo che la montagna non sia attraente senza pista da sci, da slittino, da downhill, quella di pattinaggio, spazi al coperto, eccetera… Un centro sportivo, diciamo così, dove le persone vengono e fanno mille attività. Invece gli stranieri che arrivano sulle nostre Alpi, e sono sempre di più, cercano la montagna vera: posti dove camminare, vedere un torrente, un lago, un ghiacciaio finché esiste ancora, mangiare e dormire in posti semplici e autentici. Sentirsi davvero in montagna, insomma».

E invece…

«Noi pensiamo ancora agli sciatori che arrivano e che quindi devono avere il comprensorio, lo snow park e l’aperitivo sulle piste. La differenza fondamentale tra i due modelli e che questo consuma la montagna, la asfalta e la rovina, perché quando poi piste e impianti diventano inutilizzabili per i più svariati motivi, si trasformano in autentici ruderi. Quell’altro modello fa invece della montagna un patrimonio per le generazioni future».

Però esiste anche un problema d’accessibilità alla montagna, indipendentemente dal modello di sviluppo.

«Io vorrei che restasse irraggiungibile l’alta montagna, questo sì».

Ah…

«Sinceramente, non sono convinto che fare per forza una funivia che ti porta a 3.000 metri sia una bella cosa. Esiste una natura autentica della montagna che fa sì che lassù ci arrivi chi ci riesce con le proprie gambe. Ci sono tanti bei posti che si possono raggiungere in auto per ammirare un panorama comunque mozzafiato, non bisogna per forza arrivare ovunque con gli impianti di risalita».

Non si rischia però di dare un’immagine un po’ troppo elitaria della montagna?

«No, non è la mia intenzione. Ogni volta che faccio questo discorso mi replicano che ci sono anche gli anziani, i disabili... Ci mancherebbe, ma la montagna ha un equilibrio delicato che va rispettato e non si può pensare che sia ovunque e per forza accessibile a tutti forzando la sua stessa natura. L’alta montagna lasciamola lì così com’è…».

Resta il fatto che è difficile arrivarci, anche a bassa quota…

«Con i trasporti pubblici è assolutamente vero, ma bisogna investire anche su quelli virtuali. Le nostre valli andrebbero connesse sia con treni che con la fibra».

Quindi distanti ma tecnologici?

«In montagna ci sono comunque attività produttive che vogliono e devono stare sul mercato, e ora anche chi ci vuole andare a vivere e lavorare a distanza. Con il covid questa tendenza è assolutamente aumentata: c’è che si è ritrovato a lavorare in smart working in modo continuo e a questo punto si domanda perché debba farlo magari in brutti posti come alcune periferie delle nostre città e non in montagna. Nel 2022 basta una buona connessione e si può fare tutto».

Mi pare che la chiave di volta per parlare davvero di montagna nel 2022 sia quella di uscire dagli stereotipi…

«Senz’altro, esiste una montagna contemporanea che va osservata e non idealizzata. Non si possono prendere i modelli del passato, bisogna semmai osservare il presente, dove stanno succedendo cose molto interessanti».

Ma servono anche incentivi economici per tornare ad abitarla?

Mah, io credo che la montagna sia per chi la sceglie, e questo è il suo bello. Spesso chi vive in città la odia, ma comunque ci deve stare per forza: in montagna chi ci è rimasto, o chi torna, lo fa perché la ama e questo è il suo bello. Nonostante le complicazioni, gli ostacoli e le durezze trovi gente che è contenta di essere lì: l’hanno scelto comunque, e fa la differenza».

Leggi anche
Leggi anche
Leggi anche
Leggi anche
Leggi anche
Leggi anche

© RIPRODUZIONE RISERVATA