Unibg, nel giro di un anno lavora l’87,4% dei laureati. Ma all’inizio la paga è bassa

ALMALAUREA. Il dato riguarda i titoli magistrali. Bene anche i triennali (84%). Cavalieri: opportunità ampie. In Lombardia però prima busta da 1.543 euro.

Un buon investimento per il futuro. Che la laurea rappresenti tutto ciò lo confermano i dati, al di là della retorica: l’impatto occupazionale resta elevato e l’effetto sulle retribuzioni è rilevante, seppur non sempre immediato. Lo raccontano i dati del nuovo rapporto di AlmaLaurea, il consorzio delle università italiane che monitora i percorsi dei laureati e il salto nel mondo del lavoro. La nuova edizione, presentata ieri e riferita allo scenario del 2024, consegna un quadro positivo per l’Università degli Studi di Bergamo, anche nella prospettiva di medio periodo.

I tassi di occupazione dei laureati

A un anno dal conseguimento del titolo di studio, il tasso di occupazione dei laureati triennali dell’Unibg – quelli che non proseguono con la magistrale – è dell’84%, al di sopra della media lombarda (82,5%) e in crescita di 3,9 punti rispetto al 2022; per i laureati magistrali si sale all’87,4%, sempre a un anno dall’ottenimento del titolo, e di nuovo con valori superiori alla media lombarda (che si ferma all’82,7%) e col segno più rispetto al 2022 (+2,2 punti percentuali). Certo, c’è poi il tema della stabilità: a cinque anni dalla laurea magistrale solo il 67,5% ha in tasca un contratto a tempo indeterminato (due giovani su tre, ma in crescita di 3 punti percentuali sul 2022), eppure il dato bergamasco è un piccolo exploit visto che in Lombardia ci si ferma ad appena il 54,9%.

Appunto, proseguire gli studi determina un vantaggio: dopo la triennale, il 60,6% dei laureati triennali dell’Università di Bergamo sceglie di iscriversi a una magistrale (+1,5 punti dal 2022), ben più che nel resto della regione (dove lo fa solo il 51,1%). La differenza, alla lunga, si vede anche in termini economici: in media in Lombardia un laureato magistrale percepisce – a distanza di cinque anni dal conseguimento del titolo – una retribuzione mensile netta di 1.914 euro, attestandosi su livelli salariali superiori alla media; il primo impatto col mondo del lavoro è però più difficile, visto che a un anno dalla laurea magistrale la «paga» è ancora ferma a 1.543 euro netti mensili. Col tempo però si migliora.

«Percorsi di qualità»

«I risultati emersi dal confronto con i dati AlmaLaurea confermano l’impegno dell’Università di Bergamo nel promuovere percorsi formativi di qualità, capaci di offrire ai nostri studenti e laureati opportunità sempre più ampie», sintetizza il rettore Sergio Cavalieri. La mappatura relativa all’Unibg, che ha coinvolto per questa edizione 3.995 laureati, permette di scandagliare la quotidianità degli studenti. Il 10,6% ha svolto un periodo di studio all’estero, con un buon progresso rispetto al passato (nel 2022 capitava solo al 7,9%), mentre è elevata la quota di iscritti che durante gli studi lavora (ben l’83,4%, oltre dieci punti sopra la media regionale). Calano, invece, i laureati in corso: nel 2024 ce l’ha fatta il 61,9%, nel 2022 si era al 71,2%. «Un trend che rispecchia il calo di circa 5 punti percentuali anche a livello nazionale e lombardo – segnalano dall’ateneo -, che in termini assoluti presentano percentuali superiori all’andamento UniBg».

La percezione dei laureati

Per il rettore Cavalieri, «l’aumento della mobilità internazionale, dell’occupazione e della soddisfazione post-laurea testimoniano un’evoluzione coerente con le esigenze del mondo del lavoro e con la nostra missione di apertura e innovazione. È importante sottolineare che i dati AlmaLaurea rappresentano per il nostro ateneo un riferimento fondamentale per comprendere meglio dove indirizzare le nostre azioni rivolte al miglioramento della qualità della didattica e dei servizi ad essa correlati, permettendoci così di rispondere in modo sempre più efficace alle esigenze degli studenti e del territorio».

L’«indagine» ha infatti approfondito anche la percezione che matura tra i laureati: il 59,7% ritiene il proprio titolo di studio efficace o molto efficace per l’inserimento lavorativo, in incremento rispetto al 55,4% del 2022 e su numeri superiori al trend regionale (56,9%) e allineati a quello nazionale (60,8%). Ma salutata l’università, qual è la traiettoria di carriera di questi giovani? In tempi recenti sono cambiate le «destinazioni»: tra i laureati magistrali s’è accresciuta la fetta che trova impiego nel pubblico (il 21,9% secondo il dato del 2024, contro il 14,4 del 2022), benché la parte del leone la faccia il settore privato (73,2%, contro l’80,3% del 2022), a cui si affianca infine una piccola parte di impiegati nell’ambito non-profit (il 4,8% nel 2024, era il 5,2% nel 2022).

Domanda e offerta

La «mappatura» di AlmaLaurea, che nell’intero Paese ha permesso di valutare la condizione occupazionale di 690mila laureati usciti da 81 atenei, accende nuovamente la luce sulla doppia sfida che l’Italia è chiamata a giocare: quella salariale e quella dei livelli d’istruzione, con dati spesso critici rispetto ai principali Paesi europei. «Nelle statistiche dell’Ocse siamo il Paese con la più bassa quota di laureati e anche uno dei Paesi col più basso “premio salariale” della laurea – rileva Federica Origo, professoressa ordinaria di Politica economica all’Università di Bergamo e delegata del rettore ai rapporti con le scuole, orientamento in ingresso e in itinere, intervenuta ieri in una delle tavole rotonde della presentazione del rapporto, ospitato all’Università di Brescia -. I dati nazionali indicano che il 35-40% dei laureati non usa appieno le proprie competenz e: occorre capire se c’è un disallineamento tra la disciplina di studio e il lavoro fatto oppure se è un problema di overqualification. Se è quest’ultimo il vero problema, dobbiamo agire in cooperazione con le imprese per aiutarle a creare un lavoro produttivo, con crescita di lungo periodo e innovazione maggiore». C’è però un tema che sta a monte e che posa l’attenzione sul passaggio tra scuola superiore e università: «C’è spesso una tensione tra le preferenze individuali e le richieste del mercato – ha spiegato Origo -. Quando si fa orientamento nelle scuole si devono presentare gli sbocchi professionali più appetibili e richiesti, sì, ma abbiamo anche il dovere di aiutare gli studenti a capire le proprie vocazioni».

È il paradosso dell’«ingegnere forzato»: «Se un ragazzo ha la vocazione a studiare Lettere ma viene spinto verso Ingegneria secondo un ragionamento legato ai dati di mercato – è la riflessione di Origo - mi aspetto che questo studente farà fatica, impiegherà tempo a laurearsi e uscirà con un voto non elevato, e dunque con maggiori difficoltà a collocarsi nel mercato del lavoro».

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