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L’INTERVISTA. Il Cardinale Pierbattista Pizzaballa ricostruisce il clima in cui è maturata l’immane tragedia che ormai da due anni mette in ginocchio la Terra Santa. «La fine della guerra non sarà la fine del conflitto». Leggi l’intervista di due pagine su L’Eco di Bergamo di martedì 30 settembre.
«Il futuro è incerto, difficile da decifrare. Di una cosa sono certo: i palestinesi sono stanchi di sentirsi dire dagli altri quale dovrà essere il loro futuro. Non ci sarà nessun futuro se non si dialogherà con loro e senza la loro partecipazione diretta alla soluzione del problema». Lo dice il Cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini, in questa lunga intervista rilasciata domenica scorsa. Un lungo colloquio nel quale ricostruisce anche il clima in cui si è sviluppata questa immane tragedia che ormai da due anni mette in ginocchio la Terra Santa.
«È uno spartiacque: c’è un prima e c’è un dopo. Nulla sarà più come prima. Israele è sempre stato percepito dagli ebrei, anche per la gran parte sparsi di loro nel resto del mondo, come la casa dove sentirsi protetti, dove non ci si deve difendere. Certo, si devono difendere in maniera generale, ma come società, come cultura, come identità, sono a casa loro. Il 7
ottobre ha rotto questa convinzione interiore. Hanno capito di non essere più al sicuro, perché è accaduto qualcosa che non accadeva dal tempo della Shoa. Non è un caso che il 7 ottobre venga chiamato “la piccola Shoa”. Questo ha riaperto nella coscienza israeliana e nella coscienza ebraica un’antica ferita: che quello accaduto in Europa tanti anni fa possa accadere di nuovo. Un trauma che ha rotto moltissimi meccanismi sia all’interno sia in relazione all’esterno. Ragioni che molto spesso non si comprendono se non da qui. Lo sappiamo: Israele non ha mai amato molto gli arabi, ma all’interno del Paese c’è sempre stato un altro Israele che, a dispetto dei governanti, sentiva la necessità di stabilire una sorta di status quo, di tenere aperto il dialogo con i palestinesi. Questo meccanismo si è rotto, frantumando anche il minimo di fiducia sinora avviata».
«Attenzione: non bisogna confondere le dimostrazioni che ci sono in Israele. Non sono a favore della pace, sono contro Netanyahu. La stragrande maggioranza di chi protesta non vuole avere a che fare con i palestinesi. La preoccupazione è la liberazione degli ostaggi. Cosa accade a Gaza o in Cisgiordania interessa ad una piccolissima parte della società israeliana. In Israele si vuole la fine della guerra perché ci sono troppi morti, la crisi economica comincia a farsi sentire, centinaia di migliaia di soldati riservisti non vanno a lavorare, la paura che non possano tornare».
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