In Kosovo 10 anni dopo la guerra: nella scuola dei bergamaschi 400 diplomi

IL REPORTAGE. Inaugurata il 26 ottobre del 2000 a Jabllanica: dalla guerra a oggi un futuro per migliaia di giovani. Don Claudio Visconti di Bergamo: «La grande solidarietà e i segni di vicinanza della Caritas e della rete Bergamo per il Kosovo».

È terminato il primo turno di lezioni alla scuola Hil Mosi di Jabllanica. I professori si fermano a scambiare qualche parola nell’aula degli insegnanti riscaldata con una stufa a legna. Fuori il campo di calcio è coperto di brina e i ragazzi con le cartelle si rimettono le scarpe ed escono per rientrare nelle loro case a Jabllanica piccola e grande, ma anche a Radavac e Novoselle. Una giornata come tante altre di una normale settimana ma che porta una visita inaspettata: quella di don Claudio Visconti, direttore della Caritas diocesana bergamasca e di una piccola delegazione dall’Italia, da Bergamo, composta anche dal responsabile dell’Ufficio mondialità della Caritas di Bergamo, Giacomo Angeloni. Una sorpresa che riporta all’improvviso tutti i professori indietro di dieci anni, al 26 ottobre del 2000, quando più di un migliaio di ragazzi e famiglie festanti avevano accolto una delegazione, ben più nutrita di quella che faceva ora capolino alla porta, per l’inaugurazione di quella scuola costruita grazie alla solidarietà di tanti bergamaschi come segno di speranza per la popolazione del Kosovo, reduce da una guerra civile lacerante. Il nuovo preside Riza Mujaj manda avanti la scuola da quasi dieci anni: il vecchio dirigente scolastico infatti, Hysen Ahmetaj, è morto poco dopo l’inaugurazione. Riza Mujaj offre un po’ di caffè turco e della rakia (la grappa locale) per festeggiare la visita. Un viaggio pensato per ritornare sui luoghi di un’emergenza Caritas e ritrovare progetti, posti, persone.

Un viaggio per comprendere che cosa è rimasto di un incontro avvenuto dieci anni prima, per capire se ciò che è stato costruito è realmente servito alla comunità, per ragionare sui punti di forza e di criticità degli interventi umanitari oggi messi così tanto in discussione. Robert Gojani, uno dei ragazzini del Cre estivo di Pec/Peje, aiuta nella traduzione. Si rompe il ghiaccio mostrando il libretto che era stato realizzato dopo la guerra: raccoglieva i disegni dei bambini fuggiti in Albania e ospiti nei campi profughi dove si alternava la presenza dei volontari bergamaschi, le immagini di case distrutte, di ponti saltati, delle forze Nato rientrate nel Paese dopo la fine del conflitto con i serbi, e ancora i momenti felici dell’inaugurazione della scuola, del centro professionale di Novoselle e dell’asilo a Pec/Peje, ma anche dei Centri ricreativi estivi con i giovani volontari da Bergamo. Il preside e i professori si stringono intorno a quel libretto: il professore di matematica, Smail Ahmeti, comincia ad agitarsi, poi si commuove e poi chiama al telefono qualcuno.

Tra i disegni al campo profughi riconosce quello di suo figlio, Leotrim: aveva otto anni quando disegnava quei carri armati neri con impresso il simbolo della Kfor nel campo di Derven in Albania. Erano fuggiti da Pec/Peje per scampare alla rappresaglia serba e poi ai bombardamenti Nato. Oggi, dice con orgoglio, suo figlio ha 22 anni (allora ne aveva 12) e studia Ingegneria a Pristina. Speriamo - dice - che trovi lavoro. Dopo dieci anni - racconta - le fabbriche del vecchio regime comunista non sono state più riavviate e manca una reale ripresa industriale. Funziona con 17 classi Si sfogliano le pagine e tutti si fermano sull’immagine di una bimbetta bionda: avrà poco meno di quattro anni e tiene in mano un frutto e una bottiglia vuota sulla porta di una casa semidistrutta. È Diamanta Zekaj, affermano in coro i professori, e subito ci si mobilita per cercarla. Diamanta oggi ha 14 anni e si sta per diplomare alla scuola di Hil Mosi. Ha potuto studiare grazie a quell’edificio costruito dieci anni prima, dopo la guerra. Lei guarda incredula il suo volto di bambina: oggi è una ragazza e conserva lo stesso sguardo trasparente e i capelli biondi.

Ritorna a casa: vive a Jabllanica piccola con la sua famiglia e viene a piedi a scuola tutte le mattine. Sono almeno 400 i ragazzi che come Diamanta hanno potuto seguire tutto l’iter di studi e diplomarsi a Hil Mosi. Il preside è orgoglioso della scuola e ha ragione di esserlo. Nel corridoio c’è ancora la targa posta il giorno dell’inaugurazione: «Semplici e dignitose mura per dire la gioia e la fatica di gruppi, comunità e popoli alla ricerca della verità e della pace». C’è anche l’immagine di monsignor Mark Sopj, allora vescovo del Kosovo, scomparso nel 2005, e il ricordo di monsignor Roberto Amadei, vescovo di Bergamo, che fu promotore della sottoscrizione con «L’Eco». Per quella scuola furono investiti un miliardo e mezzo di vecchie lire, ma mai soldi furono meglio spesi, vedendo l’istituto oggi: 17 classi con più di venti alunni per classe. Il primo anno si contavano 600 iscritti: poi molte famiglie hanno deciso di emigrare verso le città o addirittura all’estero in cerca di lavoro. Ma molti restano e hanno ripopolato le loro terre di origine, tra le tombe degli eroi dell’Uck, i guerrieri della liberazione kosovara, e grazie a Diamanta e agli altri ragazzi cercano di guardare con fiducia al futuro.

«Meglio ricordare le cose belle e dimenticare quelle brutte, o sbagliate. È l’unico senso che si può dare all’umanità altrimenti non si va avanti». Avdi Sefaj, nel salotto di casa sua, su un ampio divano che abbraccia due pareti, racconta di come si può lasciare alle spalle la guerra. Profugo in Albania e poi rientrato a Pec/Peje dopo il conflitto tra serbi e kosovari è stato un valido collaboratore per la costruzione del centro polifunzionale professionale di Novoselle. Un’opera realizzata grazie al sostegno della sottoscrizione «Aiutiamoci a vivere» promossa dal Giornale di Brescia e all’impegno della rete di Bergamo per il Kosovo, il coordinamento di associazioni bergamasche impegnate nei Balcani. È circondato da alcuni dei suoi sette figli e racconta di avere otto nipoti, tre in arrivo proprio quest’anno. La sua famiglia in questi anni, nonostante i lutti della guerra e il lavoro che scarseggia, ha guardato avanti, addirittura è cresciuta.

Avdi osserva sorpreso don Claudio Visconti, le parole quasi non prendono corpo, ci si guarda negli occhi e basta. Scorrono nei volti i ricordi di quei momenti: il rientro in Kosovo dai campi profughi dopo la fine della guerra il 9 giugno del 2000. La ricostruzione in poco tempo di 420 case e del centro professionale di Novoselle. Avdi Sefaj si rende da subito disponibile. Profugo dal Montenegro, è maestro elementare. Segue i lavori per la costruzione del centro. «La presenza dei bergamaschi qui in quei giorni ? ricorda a distanza di dieci anni ? è stata importante: non solo e non tanto perché ci hanno dato una mano concreta nella ricostruzione ma perché con la loro presenza, la loro vicinanza, non ci hanno fatto sentire soli, abbandonati a noi stessi. Le nostre case erano distrutte, i nostri occhi hanno visto violenze inaudite, i nostri cuori erano in lutto. Non avremmo avuto la forza di rialzarci se avessimo dovuto affrontare tanto dolore da soli». Oggi il centro di Novoselle, inaugurato l’8 ottobre 2001 con un investimento di 600 milioni di lire, funziona a ranghi ridotti. La dirigente è in maternità e gli spazi della scuola non vengono molto utilizzati: purtroppo le attrezzature sarebbero completamente da rinnovare. Manca l’impianto di riscaldamento e il centro si mantiene grazie alla biblioteca e al grande salone delle feste utilizzato per matrimoni.

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