Reporter uccisi, occhi scomodi

Non basta più la scritta «Press» (stampa) sull’auto o sul giubbotto antiproiettile, così come non è più sufficiente la croce rossa sui veicoli perché giornalisti e operatori umanitari vengano risparmiati da bombardamenti o spari.

Nelle guerra moderne l’80% delle vittime sono civili, ribaltando la proporzione in vigore fino al Primo conflitto mondiale, quando a perdere la vita erano per l’80% militari. Nell’epoca moderna i fronti sono frastagliati e modificati e gli armamenti sempre più potenti ma non chirurgici come vorrebbe una tesi ipocrita. Nella guerra russo-ucraina sono già morti sotto i bombardamenti russi una trentina di cronisti mentre 15 risultano dispersi, probabilmente prigionieri. L’ultima vittima è il francese Frédéric Leclerc-Imhoff, del canale televisivo Bfm Tv, ucciso lunedì scorso durante un attacco di Mosca vicino alla città di Severodonetsk, nell’Est dove i combattimenti sono più accesi, mentre era con alcuni civili a bordo di un autobus umanitario. La scheggia di una bomba lo ha colpito al collo. La Procura nazionale antiterrorismo di Parigi ha annunciato l’apertura di un’indagine per crimini di guerra sulla morte del giornalista. L’esercito invasore ha infatti preso di mira un convoglio che trasportava persone in fuga dall’offensiva russa, non certo un obiettivo militare.

Le cronache dalla prima linea del conflitto in Ucraina sono oggetto di critica da parte dell’opinione pubblica in Occidente, specialmente sui social, perché sarebbero inquinate dalla propaganda americana. Non è così: nei talk show, che ospitano rappresentanti politici vicini al Cremlino e giornalisti moscoviti pro-Putin, e in Facebook dove si mette in dubbio la veridicità di ogni azione mortale compiuta dai militari invasori, è molto più attiva e radicata la propaganda russa, nota per aver influenzato anche che le campagne elettorali in Europa a favore di leader sovranisti e di Donald Trump negli Usa, nelle presidenziali del 2016. Ma tant’è. Ormai vengono messe in dubbio anche fonti autorevoli come le organizzazioni non governative che operano sul campo e vedono ciò che accade, o agenzie delle Nazioni Unite. «Quasi cento giorni di guerra in Ucraina hanno avuto conseguenze devastanti per i bambini, di una portata e a una velocità mai viste dalla Seconda guerra mondiale» ha dichiarato ieri l’Unicef spiegando che sono oltre 5,2 milioni i piccoli bisognosi di assistenza umanitaria: tre milioni nel Paese aggredito e oltre 2,2 milioni negli Stati che ospitano rifugiati. Circa due bambini su tre sono stati sfollati a causa dei combattimenti e molte scuole sono state distrutte dalle bombe. In più un milione e mezzo di piccoli rischiano una grave crisi alimentare. Sempre l’Unicef segnala che dal 24 febbraio scorso più di due bambini vengono uccisi e oltre 4 feriti ogni giorno (per un totale rispettivamente di 262 e 415). Ma ci sarà chi metterà in discussione anche questi numeri.

Va restituito l’onore agli inviati di guerra, che consapevolmente rischiano la vita per essere più vicini possibile ai fatti e poterli raccontare nel dettaglio. Quando non riescono ad essere testimoni di una vicenda bellica, riportano le versioni dei due belligeranti con le relative fonti. Un atto di correttezza e di coscienza dei propri limiti. Ma spesso i giornalisti vengono tenuti volutamente lontani dalle zone dei combattimenti, soprattutto dai luoghi dove vengono compiuti crimini di guerra: sono infatti testimoni scomodi. Ma nell’epoca dei social e dei dibattiti sguaiati nei talk show, dove le opinioni vengono confuse con la realtà, è confortante sapere che c’è ancora chi va alla ricerca dei fatti, avvicinandosi il più possibile alle zone dove avvengono. In questa vicinanza il mestiere dell’inviato di guerra negli anni non è cambiato molto, anche se deve competere con fonti di «notizie» poco credibili. Il grande fotografo Robert Capa diceva che «non esistono foto belle o foto brutte, ma prese da vicino o da lontano». Vale anche per gli articoli: l’essere prossimi alle vicende e al loro evolversi rischiando la vita, rende gli inviati di guerra degni di rispetto. Non solo da morti.

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