Economia / Bergamo Città
Giovedì 20 Novembre 2025
Giovani, la laurea non basta: rischio lavoro povero per il 13%
LO STUDIO. Solo un bergamasco su 4 ha un alto titolo di studio e fino ai 34 anni il ritorno salariale è basso. Origo: «Tanti vanno all’estero».
«Questo territorio è giunto in una fase storica nella quale non deve più preoccuparsi solo della “quantità” del lavoro, ma anche della qualità dell’occupazione creata, soprattutto per i giovani». Federica Origo, professoressa ordinaria di Politica economica all’Università di Bergamo, traccia questa conclusione dopo aver illustrato un’ampia serie di dati, all’interno del convegno promosso ieri dall’Inps in Sala Sestini. È il frutto di uno specifico progetto di ricerca avviato da un paio di anni in ateneo per monitorare, sotto il versante occupazionale, la «questione giovanile».
I riscontri, pur in un territorio ricco come questo, raccontano di certi elementi di debolezza strutturale: su tutti il basso «ritorno salariale» della laurea, qui valorizzata meno che altrove.
Prima di arrivare al titolo di studio, però, c’è l’analisi su chi rimane escluso dai circuiti dell’occupazione e della formazione. Nel 2024, ha ricordato Origo, il tasso di Neet – appunto i 15-29enni che né studiano né lavorano – «ha toccato uno dei minimi storici: 8,4% in Bergamasca e 10,1% in Lombardia, col dato provinciale dimezzato rispetto al 2018». Ma chi sono i Neet orobici? «Emergono soprattutto due profili – rileva l’economista -. Ci sono giovani maschi in uscita da famiglie in condizioni socioeconomiche favorevoli: la loro situazione di Neet potrebbe essere una scelta, ad esempio un anno sabbatico dopo il diploma, o un effetto delle fragilità, magari legate a un problema di salute mentale o al disorientamento; sono ragazzi difficili da contattare e che necessitano di un accompagnamento che non si limiti solo alle politiche attive. L’altro gruppo è rappresentato da giovani donne straniere sposate e inattive, una casistica che chiama in causa fattori culturali e fattori di mercato».
Il lavoro povero
«Se i neolaureati non vedono riconosciuto il proprio valore nel mercato del lavoro locale, la prima opzione che considerano è lasciare la regione o il Paese – riflette la docente -. C’è una forte crescita dell’emigrazione, soprattutto nella fascia dei 18-39 anni, in egual misura per maschi e femmine. Questa tendenza, sul lungo periodo, determina una minor crescita economica e una minor innovazione del tessuto produttivo»
Il lavoro povero è una realtà anche a queste latitudini, perché a volte non basta avere un impiego per mantenere un tenore di vita dignitoso. Complessivamente, secondo le stime dell’Unibg, tra i giovani bergamaschi «c’è una minore incidenza del rischio di povertà lavorativa, al 18% contro il 20% di media lombarda». Ma la laurea, prosegue Origo, «sembra avere un minore effetto protettivo rispetto alla media regionale, e qui la quota di laureati a rischio di povertà è al 13%, sopra la media regionale che si ferma al 9%». Che significa? «Se i neolaureati non vedono riconosciuto il proprio valore nel mercato del lavoro locale, la prima opzione che considerano è lasciare la regione o il Paese – riflette la docente -. C’è una forte crescita dell’emigrazione, soprattutto nella fascia dei 18-39 anni, in egual misura per maschi e femmine. Questa tendenza, sul lungo periodo, determina una minor crescita economica e una minor innovazione del tessuto produttivo».
Peraltro, i «working poor» scontano delle conseguenze anche a distanza di anni: chi guadagna poco versa pochi contributi, e quindi la pensione sarà più bassa. Quanto all’autonomia, in terra orobica dopo i trent’anni uno su cinque vive ancora nella famiglia d’origine.
Il «premio» della laurea
Dati alla mano, misurati sul periodo 2021-2023, il centro di ricerca dell’Università di Bergamo su giovani e lavoro ha appunto calcolato il «ritorno salariale» del titolo di studio, inteso come il differenziale (in positivo) di stipendio a seconda del livello d’istruzione.
Considerando l’intera popolazione tra i 15 e i 64 anni, in provincia di Bergamo un diplomato guadagna in media il 17,4% in più di chi s’è fermato alla scuola dell’obbligo, mentre un laureato tocca il +36,5% sempre rispetto alla scuola dell’obbligo, performance sostanzialmente in linea alla media regionale (+16,5% per i diplomati e +37,3% per i laureati). Se tuttavia si prendono a campione solo i 15-34enni, il quadro muta profondamente: in Bergamasca la retribuzione di un diplomato è appena del 3,3% superiore a quella di chi ha la terza media (contro una media lombarda del +9,2%), quella di un laureato è più alta del 18,5% (ma la media lombarda è del 25,2%). Peraltro, in Bergamasca la laurea è ancora poco diffusa: appena un giovane su quattro ha un titolo di studio terziario, un’incidenza decisamente inferiore al trend italiano (30,9%) ed europeo (44,1%).
Considerando l’intera popolazione tra i 15 e i 64 anni, in provincia di Bergamo un diplomato guadagna in media il 17,4% in più di chi s’è fermato alla scuola dell’obbligo, mentre un laureato tocca il +36,5% sempre rispetto alla scuola dell’obbligo, performance sostanzialmente in linea alla media regionale
«Sembra un paradosso», rimarca Origo, «perché i nostri laureati magistrali impiegano meno di tre mesi a trovare una mansione e a 5 anni dalla laurea il tasso di occupazione è molto elevato, al 91%». Che fare? «Si potrebbe aprire a livello provinciale – è la proposta di Origo – un tavolo che ragioni sulla qualità del lavoro, giungendo a una definizione condivisa e pensando ad azioni comuni sul tema».
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