C’è l’ombra dell’Iran per colpire gli Usa

ATTENTATO IN ISRAELE. Man mano che arrivano le notizie, man mano che il catastrofico bilancio di vittime e distruzioni provocate dall’attacco di Hamas si aggrava, si capisce quanta ragione abbiano avuto le autorità di Israele nel parlare subito di «guerra».

Ci sarà modo di capire come i preparativi di una guerra di questa portata siano potuti sfuggire alle spie e all’intelligence dello Stato ebraico, oltre che ai satelliti Usa. E come l’apparato militare abbia potuto farsi sorprendere in tal modo da un nemico ben noto e peggio armato. Conoscendo gli israeliani, le inchieste arriveranno e, dopo un simile fallimento, non guarderanno in faccia a nessuno. Forse nemmeno in quella di Itamar Ben Gvir, l’ultra nazionalista (ma è un eufemismo) ministro della Sicurezza nazionale, ossessionato dall’idea di proteggere gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, che sono la sua base elettorale, forse fino al punto da sguarnire il confine con Gaza.

Ma questo, semmai, avverrà alla fine della guerra. Ciò che per noi conta, ora, è capire chi l’ha dichiarata e perché. Hamas, certo. Ma non avrebbe senso trasformare Mohammed Deif, il comandante militare di Hamas, in una specie di novello Von Clausewitz, visti soprattutto i modesti risultati militari ottenuti fino a pochi giorni fa. Il regista, l’entità che ha fornito i mezzi, suggerito le tattiche, ispirato le strategie (compresa quella di occupare, sia pure brevemente, una piccola porzione di Israele) e, soprattutto, scelto il momento non sta a Gaza. Anzi: si serve di Gaza per questa che è, a ogni evidenza, una guerra per procura.

Il primo indiziato è l’Iran. E non solo per la feroce ostilità, ricambiata, che storicamente mostra verso lo Stato ebraico. C’è di più: sembrava ormai vicino un accordo per la normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele, che avrebbe completato la mappa degli Accordi di Abramo (appunto tra lo Stato ebraico e diversi Paesi arabi) che sono stati la grande invenzione dell’amministrazione Trump. Per arrivare alla firma, il mediatore Joe Biden era pronto a fare ampie concessioni al regno saudita: un impegno formale a difenderlo in caso di aggressione e una vasta collaborazione nel settore nucleare. Cosa questa che anche negli Usa fa rabbrividire molti: l’atomica nelle mani di Mohammed bin Salman spaventa poco meno di una, ipotetica, nelle mani degli ayatollah.

Se l’accordo fosse andato in porto, per l’Iran sarebbe stato uno smacco colossale. Con l’Arabia Saudita protetta dall’ombrello militare Usa e dotata di accesso al nucleare, avrebbe perso la golden share per la pacificazione della regione (si vedano anche lo Yemen e il Libano) e il riavvicinamento diplomatico coi sauditi, a sua volta mediato dalla Cina di Xi Jinping, sarebbe diventato carta straccia. L’attacco di Hamas a Israele ha costretto i dirigenti sauditi a prendere posizione in difesa dei palestinesi, per non restare isolati nel mondo arabo ed esposti alla propaganda e al terrorismo degli estremisti. E ha ovviamente allontanato, se non proprio annullato, qualunque prospettiva di intesa con Israele.

Questo è, al momento, lo scenario più credibile e concreto. Le grida di «morte a Israele, morte all’America!» che si sono levate nel Parlamento iraniano all’arrivo delle prime notizie da Gaza ne sono state la conferma più retorica e convincente. Quasi tutto il resto pare speculazione del momento o pio desiderio. Anche il presunto coinvolgimento della Russia. Paese che, per bocca del ministro degli Esteri Lavrov, ribadisce una formula per così dire pro-Palestina (due Stati, confini del 1967 e Gerusalemme Est come capitale palestinese) ma che ha ottimi rapporti con Israele, che infatti non ha finora fornito armi (nemmeno lo scudo anti-missile Iron Dome) all’Ucraina.

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