Democrazia
e mercato

Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale è stata proprio l’affermazione di uno stretto legame tra democrazia e mercato a dare vita allo sviluppo socioeconomico di larga parte del mondo occidentale. A questa visione liberale si è contrapposta per molti anni quella dell’Unione Sovietica, impegnata come noto ad affermare la propria potenza complessiva attraverso un regime autoritario. La caduta del muro di Berlino e la conseguente crisi del comunismo hanno rappresentato per molti anni la solenne conferma dell’indispensabile ruolo della democrazia per il miglior funzionamento del mercato.

Da qualche tempo stiamo invece assistendo in molte parti del mondo a un processo di separazione tra democrazia e mercato che vede coinvolto un cospicuo numero di Paesi, dalle Filippine alla Turchia, al Brasile, alla Russia, all’India, alla Cina. Quest’ultima, in particolare, ha in Xi Jinping una guida autoritaria e fedelissima ai dettami del comunismo, pur avendo aderito pienamente alle regole del «libero mercato globale» del quale proprio Xi Jinping ha esaltato le virtù in occasione dei suoi frequenti interventi nei principali consessi mondiali. Tale scelta ha portato la Cina ad assumere un ruolo di potenza di primo piano a livello internazionale attraverso un programma di grandi investimenti in infrastrutture, come quello della «Nuova via della Seta» che attraverso i Paesi asiatici e l’Oceano Indiano unirà la Cina ai Paesi del Nord Europa. La Cina è, infatti, un Paese che ha interesse da un lato a realizzare un sostanziale controllo sociale ma, nello stesso tempo, ha l’esigenza di favorire una rapida crescita a due cifre che consenta di superare condizioni di grande arretratezza e povertà.

Assai meno prevedibile era che democrazia e mercato si separassero anche in Europa, dove i disagi sociali appaiono meno evidenti e le tradizioni democratiche sono da tempo consolidate e agognate su larga scala. Tuttavia, l’affermazione in Paesi come Ungheria e Polonia di «partiti populisti» ha dato vita a governi che negli ultimi anni si sono caratterizzati per decisioni nettamente distanti dai fondamentali principi democratici. Basti pensare a quanto avvenuto sul controllo dei media, sino ad arrivare alla chiusura di quelli che si sono mostrati contrari al regime. A queste misure si sono poi aggiunti i continui interventi limitativi delle autonomie del sistema giudiziario, delle istituzioni culturali (in primis delle università), fino a determinare il sostanziale controllo di quasi ogni aspetto della vita sociale. Questa crociata antidemocratica ha trovato terreno fertile nell’esaltazione delle loro tradizioni imperiali e nell’estremizzazione delle tendenze anti-migratorie presenti in larga parte della popolazione. L’affermazione, poi, del principio «prima l’Ungheria e la Polonia» ha portato al rifiuto dei frequenti inviti rivolti dai responsabili delle istituzioni europee al rispetto delle regole comunitarie che sono state a suo tempo condivise ma che il primo ministro ungherese Orban ha classificato come «atteggiamento colonialista». Va detto che il permanere della previsione del voto all’unanimità per ogni decisione del Consiglio europeo mette Ungheria e Polonia in una posizione di grande privilegio, utilizzata proprio lo scorso anno per ostacolare l’approvazione del bilancio pluriennale europeo, che ha portato alla costituzione del «New Generation Ue», e per contrastare ogni iniziativa di Francia e Italia tendente alla costituzione di un debito comune europeo. Sarebbe dunque il caso che si uscisse presto e con fermezza da questo paradossale equivoco che rischia di mettere in crisi il cammino stesso del progetto europeo. A Ungheria e Polonia andrebbe energicamente ricordato che hanno liberamente aderito ad una Unione che ha come fondamento, e come fondamenta, la libertà e l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini, e hanno accettato che questi diritti siano garantiti da una Corte di giustizia europea, le cui sentenze prevalgono sulle decisioni dei loro tribunali.

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