Dramma migranti, le storie parlano

Mondo. Nel Mediterraneo sono morti 26mila migranti solo negli ultimi dieci anni. Ma il numero è sottostimato perché molti naufragi restano ignoti.

Un dato spaventoso, non sufficiente però a scuotere le coscienze e a mettere in campo politiche incisive improntate non ad un approccio pubblicamente securitario ma prima di tutto umanitario. Ieri si è consumata un’altra strage dopo quella di Cutro: 30 dispersi in acque Sar («Search and rescue», ricerca e salvataggio) libiche. Ne è seguito uno scambio di accuse: secondo la nostra Guardia costiera, che ha eseguito i soccorsi, «l’intervento è avvenuto al di fuori dell’area di responsabilità italiana registrando l’inattività degli altri Centri nazionali di coordinamento marittimo interessati per la zona (Malta e Libia, ndr)». L’ong «Alarm Phone» sostiene invece di aver segnalato l’emergenza alle autorità italiane già sabato. Come per la strage di Cutro, il tempo stabilirà le esatte responsabilità.

Ma l’ennesima tragedia conferma come la gestione dell’immigrazione sia complessa e difficile, non riducibile a slogan. Lo sta imparando anche il governo Meloni: i partiti che lo sostengono, in campagna elettorale avevano promesso una netta riduzione degli sbarchi. Invece da gennaio al 20 febbraio sono arrivati in Italia (la fonte è il ministero dell’Interno) 12.096 migranti, quasi il triplo di quelli nello stesso periodo dell’anno scorso e oltre il triplo del 2021. Soltanto il 18 febbraio ne sono giunti 2.378, oltre il doppio di quelli soccorsi nei primi 50 giorni dell’anno dalle ong, che sono in tutto 955. Nello scorso weekend altri 1.800. Dei migranti sbarcati nel 2023, quelli arrivati con le organizzazioni non governative sono meno dell’8%, il restante 92 è giunto da solo o con mezzi di soccorso dello Stato italiano.

Eppure i primi provvedimenti del governo in tema immigrazione hanno riguardato proprio la limitazione delle attività di soccorso delle navi umanitarie, in base al principio smentito più volte e in più sedi del «pull factor», il fattore di attrazione che sarebbe rappresentato da queste imbarcazioni. Le partenze invece sono influenzate dalle condizioni meteo e soprattutto da quelle politiche e sociali degli Stati di partenza del Mediterraneo. La Libia è ancora fortemente instabile, con due governi (illegale quello di Tobruk) e la Guardia costiera infiltrata dagli stessi trafficanti, come certificato da inchieste giornalistiche: eppure abbiamo finanziato con 700 milioni di euro in sei anni istituzioni inaffidabili, puntando su un’inefficace esternalizzazione delle frontiere. La Tunisia, piombata nel caos politico, è di nuovo un «hub» per le partenze verso la vicina Italia, come lo fu nel 2011 durante le Primavere arabe. A fronte di questo quadro, è inutile appellarsi all’Europa come entità unitaria: non c’è, se non per le emergenze che riguardano tutti i 27 Paesi Ue.

E l’immigrazione è un fenomeno ormai strutturale che tocca per i primi approdi Italia, Spagna e Grecia, per i «movimenti secondari» (gli spostamenti illegali tra le frontiere) Francia, Germania e gli Stati europei del Nord. Vanno costruite alleanze, senza politiche muscolari o ricatti. E poi andrebbe dato corpo a parole che si sentono pronunciare da troppo tempo, velocizzando i tempi delle risposte: istituire canali umanitari per chi fugge da guerre e persecuzioni (sono stati attivati solo da associazioni di volontariato ed enti religiosi), finanziare i progetti per lo sviluppo del Sud del Mediterraneo e andare all’origine del fenomeno per trovare soluzioni adeguate.

Ma è urgente anche un linguaggio diverso. L’emigrazione è un trauma, una scelta non libera ma condizionata da violenze o da ristrettezze economiche. Chi si mette in viaggio sa di correre rischi (negli ultimi 10 anni almeno 20mila migranti sono morti nel Sahara, sulla rotta verso il Mediterraneo) e merita rispetto: non si sceglie dove nascere. Non sono persone pericolose. I dati del ministero della Giustizia certificano che la percentuale dei reati è più alta fra gli irregolari rispetto agli italiani di nascita ma più bassa quando gli stranieri sono «regolari». Sono cioè le condizioni di vita a incidere su pratiche criminali, non la nazionalità o la religione.

Il giorno dopo la strage di Cutro, dal luogo segnato dalla tragedia, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha rilasciato la famigerata dichiarazione banale ma soprattutto cinica «non dovevano partire». Proprio da Cutro il governo ha approvato nuove norme restrittive dell’immigrazione senza sentirsi in dovere di una preghiera davanti alle bare e di un incontro con i parenti. Tanto valeva restare a Roma.

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