Fronte riacceso senza risposte

MONDO. Gli azeri la chiamano «operazione anti-terrorismo», la definizione con cui oggi si fanno guerre vere a popoli interi. E infatti di questo si tratta.

La scusa è la morte di quattro poliziotti e due tecnici, uccisi da una mina sulla strada Ahmadbayli-Fuzula-Shusha, cioè nella parte del Nagorno Karabakh controllata dalle truppe dell’Azerbaigian. Ma l’obiettivo finale è stato ben definito dal ministero degli Esteri di Baku: la pace arriverà quando tutte le forze armate armene avranno lasciato la regione e «il regime di Stepanakaert sarà disperso». Ovvero quando la Repubblica dell’Artsakh, fondata nel 1992 dall’indipendentismo armeno, avrà cessato di esistere.

Il dramma che da decenni insanguina questa parte di mondo, e che ciclicamente lo riporta alla guerra, ha cause vecchie e aggravanti nuove. Nel 1920 i bolscevichi, e soprattutto Stalin, vollero assegnare il Nagorno Karabakh, che vuol dire giardino (bakh) nero (kara) di montagna (nagorno), all’Azerbaigian, senza badare al fatto (o, magari, proprio per questo) che era allora abitato al 95% da armeni. Il che, agli occhi degli armeni, è persino poca cosa se pensano che fu un re armeno a conquistarlo un secolo prima di Cristo e un altro re armeno a cristianizzarlo un secolo dopo Cristo. Ma è la decisione di Stalin a colpire, oggi, gli eredi dell’Urss, sull’uno come sull’altro lato della barricata. Quando l’impero sovietico si dissolse, le entità passate di colpo dallo status di Repubbliche dell’Unione Sovietica a quello di Stati indipendenti cercarono di mettersi d’accordo sui confini. Boris Eltsin e gli altri stabilirono che quelli che dividevano le Repubbliche avrebbero regolato i rapporti anche tra i nuovi Stati. E una serie di accordi, trattati e memoranda tramutarono quel patto in diritto internazionale. Dal punto di vista legale la questione è chiara: il Nagorno Karabakh è Azerbaigian.

Quello che nessuno aveva ben considerato è che dentro quei confini vivevano esseri umani dotati di emozioni e sentimenti. Piccoli popoli, per esempio gli armeni del Nagorno (120mila persone), i russofoni dell’Ossetia del Sud (55mila) o quelli della Transnistria (poco meno di 500mila), si trovarono (o si sentirono) di colpo ospiti in casa d’altri. Nuovi Governi si trovarono in casa quei gruppi così numerosi e così estranei, ed era facile sospettarli di intese malevole con questo o quel vicino. Come dicevamo, gli armeni del Nagorno Karabakh hanno proclamato la Repubblica (non riconosciuta nemmeno dalla prudente madre patria Armenia) nel 1992, ma quando già erano scorsi anni di sangue. La guerra che ne scaturì fece 30mila morti in due anni, aprendo un incolmabile abisso di rancori a sfondo nazionale, etnico e persino religioso, con l’Armenia cristiana opposta all’Azerbaigian musulmano. Rancori che il successivo conflitto del 2020, in cui gli azeri si sono presi una parte del Nagorno Karabakh, non ha fatto che acuire.

Poi è arrivata anche l’invasione russa dell’Ucraina. Fino a un certo punto la Russia, tradizionale alleato dell’Armenia, era riuscita a farsi sentire in questa parte del Caucaso e non a caso aveva potuto mediare il cessate il fuoco del 2020 (6mila morti in sei settimane). Oggi, dopo un anno e mezzo di guerra contro Kiev, Mosca non ha le energie né le risorse per impegnarsi anche altrove. E dal punto di vista diplomatico non può permettersi di entrare in urto con Paesi come l’Azerbaigian o, ancor più, come la Turchia, che spalleggia gli azeri in ogni modo. L’Armenia ha scoperto con orrore di essere non solo debole ma anche sola. Sentendosi abbandonato da Mosca, il premier armeno Pashinyan ha pensato di rivolgersi agli Usa, organizzando esercitazioni militari congiunte con le truppe americane. Ma perché la Casa Bianca dovrebbe scontentare un alleato fedele come il presidente azero Aliev o, peggio, entrare in urto con il bizzoso presidente turco Erdogan? L’Europa allora? Nemmeno, perché l’Azerbaigian è ora uno dei nostri principali fornitori di gas. Pashinyan è il bersaglio di contestazioni violentissime, gli armeni lo accusano di restare inerte di fronte all’aggressione azera. Ma può fare poco. Viene un dubbio: non starà pensando che perdere il Nagorno Karabakh sia l’unico modo per non perdere tutto?

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