Il dilemma di Meloni sul voto europeo

ITALIA. L’incertezza di Meloni a candidarsi per le elezioni europee potrebbe far pensare al divertente nonsense intellettualistico del film Ecce Bombo di Nanni Moretti: «Mi si nota di più se vengo o se me ne sto in disparte o se non vengo per niente?».

Le ragioni dell’incertezza, in realtà, sono molto più complesse e di non facile soluzione. Volendo proprio parafrasare Moretti, la boutade potrebbe suonare: «Mi conviene presentarmi capolista o è meglio che non sovrasti col mio nome le liste dei miei alleati?». La scelta, si diceva, non è di poco conto. Meloni sa di essere il vero traino del suo partito. Un suo impegno in prima persona in campagna elettorale sarebbe certamente premiante per FdI. Ma ha una controindicazione. Il suo successo potrebbe realizzarsi a danno dei partners, con gravi ripercussioni sulla tenuta della coalizione, tanto più se comportasse una penalizzazione elettorale, nell’insieme, del centrodestra. Non è un caso che abbia lasciato sospesa ogni sua decisione al proposito così a lungo. Come leader di FdI, deve curare gli interessi del suo partito ma, nella sua veste di premier, non può ledere quelli della coalizione, se non vuole farsi male da sola.

Dietro il problema contingente della presente sfida elettorale si nasconde, a ben guardare, un problema ben maggiore: chiamiamola, l’incompiuta della destra italiana. Per più di cinquant’anni di vita della Repubblica, sembrava che l’Italia fosse l’unica democrazia occidentale senza la destra. Dichiaratamente di destra si dichiarava solo un piccolo partito del 4-4,5% circa, il Msi, una forza nostalgica e per questo confinata ai margini del sistema politico.

Quando con Berlusconi la destra è riemersa dalle viscere della società civile, era inevitabile che scontasse il suo deficit storico di cultura politica e di classe dirigente. La destra s’è scoperta inoltre frammentata, una sorta di un animale a tre teste: leghista di Bossi, (ex?) nostalgica di Fini, (sedicente) liberale del patron di Fininvest. Da allora, la destra non è riuscita né a consolidarsi come federazione di più partiti né a dar vita ad un partito unico. Ha oscillato tra questi estremi senza mai risolvere il dilemma. Quando Berlusconi ha tentato l’operazione del partito unico con la creazione del Popolo delle libertà, ha fatto poca strada. Presto la convivenza delle diverse anime s’è rivelata impossibile, culminata presto nella secessione del leader della disciolta Alleanza nazionale, Gianfranco Fini.

Il problema si ripresenta pari pari ora che, tramontata la stella di Berlusconi, è sorta quella di Meloni. Di nuovo la destra dispone di un leader di indiscussa autorevolezza, altrettanto forte per essere alla testa di un partito dominante. Torna il dilemma se tentare la creazione di un partito conservatore capace di includere tutte le varie anime della destra, alla stregua della maggior parte delle democrazie occidentali, o istituzionalizzare una coalizione a più voci, ma coesa e solidale.

La tornata elettorale delle europee vive di questo dilemma. Con ogni probabilità, non sarà questa l’occasione per risolvere la questione, sia che FdI surclassi i partner sia che Lega e FI non ne escano umiliate. Lo spazio che Salvini cerca di recuperare a destra a danno di Meloni delinea infatti l’orizzonte di una destra italiana, per lo meno, a due teste: una conservatrice e una populista. Sarà dai rapporti che si istituiranno tra le due, se conflittuali o collaborativi, che dipenderà non solo il destino della destra, ma anche l’evoluzione della politica italiana. Dalla persistenza della loro collaborazione dipende la possibilità di avere ancora il bipolarismo. Dall’eventuale franamento della loro alleanza seguirebbe lo sfaldamento anche dell’altro polo. Tutte le carte si rimescolerebbero.

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