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MONDO. Cosa uniscono i ghiacci dell’Alaska al caldo afoso di Tianjin, il porto di Pechino? Il tentativo di far comprendere a Vladimir Putin che bisogna concludere il prima possibile il conflitto in Ucraina.
I tappeti rossi di Donald Trump a Ferragosto sono stati il chiaro segnale alla comunità internazionale che è venuto il momento di aprire un ampio dialogo collettivo con il Cremlino. Troppo grandi sono i pericoli di un mega incendio apocalittico, questa volta atomico, con l’intera umanità sull’orlo del precipizio. Le due guerre mondiali nel XX secolo dovrebbero essere pur servite da lezione, ma tant’è, qualcuno ha ripreso a giocare col fuoco.
Lasciando da parte le questioni morali, di sicurezza o geopolitiche, Pechino e Nuova Delhi sono preoccupate dalle sempre più ingombranti problematiche economiche, finanziarie e logistiche. Le sanzioni occidentali danno fastidio anche a loro, non solo a Mosca, che combatte per controllare regioni - ormai distrutte e con un’area estesa quanto l’Inghilterra piena di mine - e per rispondere a quella che Putin considera una sfida «esistenziale» alla Russia. È l’ora di darsi una calmata. Il premier indiano Modi lo ha detto chiaramente al capo del Cremlino nel loro informale bilaterale durato 40 minuti. Nuova Delhi commercia ormai circa il 40% del petrolio russo e per questo si è vista imporre salatissimi «dazi secondari» da Trump; il resto dell’export russo è in prevalenza ad appannaggio della Cina. Senza queste due entrate Vladimir Putin non avrebbe i soldi da spendere nella sua «Operazione militare speciale» in Ucraina, proprio ora che l’economia federale sta entrando in recessione. Interi settori sono fermi o sull’orlo della bancarotta. Già a giugno gli imprenditori avevano lanciato l’allarme, ma il capo del Cremlino aveva ascoltato e poi fatto capire loro che c’erano nodi strategici ben più importanti.
In breve, i tappeti rossi di Trump e gli onori in Cina servono per fare pressioni su Putin - dandogli eventualmente delle giustificazioni da utilizzare sul fronte interno - ma anche per farlo uscire dal vicolo cieco, anche psicologico, in cui il presidente russo è da tempo finito. Qualcuno riuscirà a scalfire la testardaggine di Putin? Lo vedremo presto.
Donald Trump ha comunque già perso la pazienza. Domani scadrà l’ultimatum Usa a Mosca. Cosa succederà? Gli Stati Uniti imporranno sanzioni alla Russia, come annunciato, oppure la Casa Bianca si sfilerà dalla mediazione in Ucraina? Putin non ne vuole proprio sapere di incontrare Volodymyr Zelensky, dettaglio non irrilevante, ribadito di nuovo ieri da un suo consigliere. Nella due giorni di Tianjin - città dove l’Italia (dopo la guerra dei Boxer) ha posseduto dal 1901 al 1943 una «colonia» commerciale - il gruppo di Shanghai è apparso più un club di Paesi «non allineati» che una reale alternativa all’Occidente, la cui supremazia globale è stata messa in discussione dalle politiche di Trump. Semmai è il Brics, l’altro raggruppamento (sempre con dentro Russia e Cina), a sembrare più coeso e con mire più ambiziose.
Rimanendo alla giornata di domani, la Cina presenterà al mondo la sua forza militare in occasione dell’80° anniversario della vittoria sul fascismo in Asia. Da settimane piazza Tienanmen è chiusa al pubblico per i preparativi. Saranno esibite, da quanto appreso, armi di nuova generazione operanti con l’ausilio dell’intelligenza artificiale e persino missili ipersonici. L’obiettivo di Pechino non è minacciare, bensì farsi meglio accettare come superpotenza. Questo almeno il biglietto da visita mostrato.
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