La cultura si fa uniti nella ricerca e nel dialogo

BERGAMO . Celebriamo la festa del patrono S. Alessandro, nell’anno di BergamoBrescia, città della cultura, nel ricordo dei due Santi Papi Giovanni e Paolo, figli della nostra terra, maestri impareggiabili di dialogo nella Chiesa, con tutti i cristiani, le altre religioni, l’umanità intera.

Un segno particolarmente espressivo della condivisione che quest’anno sta promuovendo, ci è donato dalla presenza del Vescovo di Brescia, mons. Pierantonio Tremolada e del Vicesindaco, il dott. Federico Manzoni, in rappresentanza della Signora Sindaco, Laura Castelletti. Li ringrazio particolarmente. È il dialogo come virtù, la scelta che la città e la diocesi hanno posto al centro della festa di quest’anno, con la consapevolezza dell’eccezionale e profetico contributo offerto a questo dai due Papi e nello stesso tempo della estrema necessità di questo esercizio. Dice il Vangelo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Il dialogo dunque come forma dell’amore, addirittura di amore eroico, esigente al punto da richiedere la disposizione e la disponibilità della stessa vita. Non vi è contrapposizione tra dialogo e martirio: se il martirio, quello del sangue e quello della fedeltà quotidiana, è la forma suprema della testimonianza, il dialogo concepito come scelta irrinunciabile è talmente esigente da rappresentare lui stesso una forma di martirio.

L’impegno coraggioso di Papa Francesco per la pace nel mondo e particolarmente per la guerra in Ucraina, è particolarmente ammirato dai giovani, proprio per la determinazione nel perseguire strade che fanno del dialogo un’arma disarmata di giustizia e pacificazione.

«Di fronte alla mancanza di pace, non basta invocare la libertà dalla guerra, proclamare diritti o anche utilizzare l’autorità nelle sue diverse forme. Occorre soprattutto mettersi in discussione, recuperare la capacità di stare tra le persone, dialogare con esse e comprenderne le esigenze, magari con la nostra debolezza, che poi è il modo più autentico per essere accolti quando parliamo di pace. Non solo i credenti, ma tutti coloro che sono animati da buona volontà sanno quanto sia necessario il dialogo in tutte le sue forme. Dialogare non serve solo a prevenire e risolvere i conflitti, ma è un modo per far emergere i valori e le virtù che Dio ha scritto nel cuore di ogni uomo e ha reso evidenti nell’ordine della creazione.

Cercare ed esplorare ogni opportunità per dialogare non è solo un modo per vivere o coesistere, ma piuttosto un criterio educativo. Il dialogo è un criterio educativo». (Papa Francesco) Nell’udienza concessa a Sotto il Monte e Concesio, i paesi natali dei due Pontefici, esattamente il 3 giugno, nel sessantesimo anniversario della morte di Giovanni XXIII, così si esprimeva: «I vostri due capoluoghi, Bergamo e Brescia, insieme, sono stati scelti per essere “Capitale italiana della Cultura” per il 2023. La vera cultura si fa uniti, nel dialogo e nella ricerca comune e – come ci ha insegnato San Paolo VI – mira a condurre attraverso l’aiuto vicendevole, l’approfondimento del sapere, l’allargamento del cuore, a una vita più fraterna in una comunità umana veramente universale».

La vera cultura, dunque, si fa uniti, nel dialogo e nella ricerca comune. È questa la matrice non solo dell’anno della Capitale della Cultura, ma di questa festa patronale. Vale la pena sottolineare la sorprendente e significativa concomitanza e convergenza di Papa Giovanni e Papa Paolo, oggi ambedue riconosciuti e venerati come Santi. Contiguità di terre, similitudine di ministero, confidenza di relazioni, successione apostolica, coprotagonisti dell’evento conciliare, espressione di una leadership spirituale a livello mondiale, il cui vertice è il loro magistero di pace.

Una concomitanza e convergenza che ha avuto da sempre il tratto dell’amicizia. In occasione dell’ordinazione episcopale di G.B.Montini, il Patriarca di Venezia scriveva: «Cara Eccellenza, lo stesso bel cielo Lombardo sorrise agli inizi della nostra vita. Lunga consuetudine di fraterni rapporti vivificò lietamente il nostro comune servizio alla Santa Sede. Ora compiremo insieme il sacramentum voluntatis Christi di San Paolo». Una concomitanza che si arricchisce in questo 2023, del sessantesimo anniversario della pubblicazione dell’enciclica Pacem in terris e dell’elezione al soglio pontificio di Paolo VI. Alla luce del magistero e della testimonianza dei due Santi Papi, raccogliamo la loro eredità, in ordine all’esercizio della virtù del dialogo, sottolineando due caratteristiche del loro alto ministero: la disposizione dialogica di Papa Giovanni e l’impostazione dialogica di Paolo VI. Papa Giovanni ci consegna la testimonianza di una disposizione dialogica crescente e contrassegnata da gesti capaci di stupire, costruire e anche scandalizzare.

La lunga esperienza in Oriente gli insegna che le relazioni umane per maturare hanno bisogno di tempo; situazioni e caratteri non si modificano dalla sera alla mattina; pregiudizi e divisioni secolari sono duri a morire: «In questo paese ci sono tante cose da combinare: ma siccome sono tutti gente ortodossa e quindi contraria e paurosa della Santa Sede e del Papa, io debbo andar piano, con cautela, con estrema delicatezza» (Lettera alla mamma, 24 maggio 1936). Non importa quando si giungerà all’unione piena; bisogna favorire occasioni di fraternità. Emerge un modo interessante di concepire l’unità: cattolici e ortodossi sono distanti da secoli; bisogna fare di tutto perché gli uni muovano passi verso gli altri; e ciò avviene se entrambi si avvicinano al centro della fede, il Signore Gesù Cristo.

Vale la pena di richiamare un brano del bellissimo discorso di commemorazione, pronunciato su incarico di Papa Paolo VI dal card. Suenens il 28 ottobre 1963, all’inizio della seconda sessione del Concilio: «La vita di Papa Giovanni è stata una grazia per il mondo. Papa del dialogo, egli sarà ricordato così in particolar modo nei riguardi degli uomini del nostro tempo. … La sua parola ha suscitato una risonanza. Gli uomini hanno riconosciuto la sua voce, una voce che parlava loro di Dio, ma anche di fratellanza, di riaffermazione della giustizia sociale, di costruzione della pace a livello mondiale. Hanno udito un appello rivolto alla parte migliore del loro cuore e hanno sollevato lo sguardo verso quest’uomo la cui bontà faceva intuire la presenza di Dio… Per questo è stato pianto come un padre circondato dai figli che invocano la sua benedizione… Lasciandoci, egli ha lasciato le anime più vicine a Dio e una terra migliore da abitare per gli uomini».

La disposizione dialogica di Papa Giovanni si arricchisce dell’impostazione dialogica di Papa Paolo VI. Egli inaugurerà il suo pontificato con uno scritto programmatico, l’enciclica Ecclesiam Suam, la cui terza parte è esplicitamente dedicata ad approfondire la scelta del dialogo. Per Paolo VI, ciò che guida ogni apertura, ogni rapporto è — e resta — l’amore fraterno, lo spirito di carità, il desiderio di perseguire ciò che unisce piuttosto che ciò che divide, così come Papa Giovanni aveva indicato. Per il cristiano il dialogo non è soltanto un metodo, ma espressione del modo stesso di credere: la fede stessa è, nella sua reale e profonda essenza, un dialogo.

In Ecclesiam Suam, scrive: «Ecco l’origine trascendente del dialogo. Essa si trova nell’intenzione stessa di Dio. La religione è di natura sua un rapporto tra Dio e l’uomo. La preghiera esprime a dialogo tale rapporto. La rivelazione, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l’iniziativa di instaurare con la umanità, può essere raffigurata in un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell’Incarnazione e quindi nel Vangelo».

Paolo VI è consapevole che la scelta del dialogo pone problemi non indifferenti: da una parte il rischio di svendere il Vangelo e di conformarsi alla mentalità mondana, dall’altra la tentazione della estraneazione e della condanna. La scelta è difficile, ma ineludibile: dialogo nella Chiesa, tra la Chiesa con le altre religioni, con i non credenti, con il mondo.

«Aderire alla fede cristiana non ci rende automaticamente capaci di dialogo e artigiani di pace, automaticamente capaci ad uscire da sé. Tutti siamo chiamati a fare questo percorso personale e comunitario, questo combattimento spirituale, che ci porta all’incontro con l’altro». (Cardinal Pierbattista Pizzaballa) Il dialogo che assume le caratteristiche della chiarezza, della comprensibilità e della comprensione, della mitezza, il dialogo non è orgoglioso, non è pungente, non è offensivo. La sua autorità è intrinseca per la verità che espone, per la carità che diffonde, per l’esempio che propone; non è comando, non è imposizione.

Particolarmente il dialogo attinge forza nel momento in cui non si riduce a contrattazione, a compromesso, a difesa del proprio interesse: ma ricerca di una verità più grande e di un bene più alto. Troppi pregiudizi e nello stesso tempo troppe intenzioni non dichiarate, alimentano sospetti e sfiducia che diventano ostacoli che svuotano la disposizione al dialogo. D’altra parte non possiamo immaginare che problemi globali come quelli dell’ambiente e della migrazione possano essere affrontati da posizioni parziali e unicamente difensive.

E pure un territorio come il nostro, caratterizzato in maniera significativa da più di 240 comuni e 389 parrocchie, insieme ad una quantità incalcolabile di soggetti sociali, non può immaginare futuro a prescindere da forme di collaborazione già virtuosamente esistenti e da ulteriormente promuovere, a partire dalla convinzione della fecondità impegnativa del dialogo. La stessa questione educativa, i cui risvolti appaiono sempre più impellenti, anche a partire da situazioni di pesante disagio, di violenza inaccettabile, di solitudini drammatiche, esige che tra i soggetti fondamentali dell’educazione si persegua un dialogo che diventi alleanza propositiva.

Diceva ancora Paolo VI: «Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi il servizio. Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo l’esempio e il precetto che Cristo ci lasciò». Nel dialogo, così condotto, si realizza l’unione della verità con la carità, dell’intelligenza con l’amore.

Dicevamo che non esiste contrapposizione tra martirio e dialogo: il martirio del cristiano è la forma suprema del dialogo, quando questo viene rifiutato in ogni forma. Nello stesso tempo il dialogo è talmente esigente che richiede la forza, la perseveranza e il coraggio che lo fanno assurgere ad autentico martirio.

Proprio come abbiamo pregato: Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo.

*Vescovo di Bergamo

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