La fase due di Meloni, lusingare gli elettori

IL COMMENTO. Meloni, fase due? Non come uno svolgimento e approfondimento della fase uno, ma come suo superamento e negazione? Si tratta di un sussulto occasionale della vecchia identità della destra forza d’opposizione, destinato ad essere presto riassorbito o del rigurgito di un passato che stenta ad essere superato?

La domanda nasce spontanea alla luce delle prese di posizione e delle iniziative messe a segno in questi giorni dal suo governo, in chiaro contrasto con la linea adottata nei primi nove mesi di vita. Da quando la giovane leader di Fratelli d’Italia ha preso le redini del Paese, si è prodigata a costruirsi un’identità rassicurante, in contrasto con l’identità pregressa, costruita dai banchi dell’opposizione. Smentendo le più fosche previsioni catastrofiste che aleggiavano sulla testa del primo governo di destra della storia repubblicana, la premier si è avvalorata come paladina convinta dell’Occidente, partner affidabile della Nato, sostenitrice incrollabile dell’Ucraina, rispettosa dei vincoli di bilancio, convinta fautrice di una politica economica volta allo sviluppo e alla crescita.

Non può passare inosservato perciò il cambio di passo operato nelle ultime settimane. Non ha avuto l’attenzione che meriterebbe la persistente elusione della destra nell’assumere gli impegni davvero importanti per il futuro del Paese. Sono impegni su cui si gioca la sfida prossima ventura delle economie sviluppate (come Cina e Stati Uniti), non a caso già esposti con colossali investimenti nei settori tecnologici più avanzati: dalla robotica ai chip, dalle start-up alle gigafactory. Nel decreto omnibus appena licenziato dal governo è significativo che si destini un modestissimo stanziamento di 700 milioni ai semiconduttori, praticamente lo stesso importo dell’ultima, ennesima trance di denaro pubblico regalata alla moribonda Alitalia.

Già questo dato sarebbe illuminante della discrepanza tra il dire e il fare che caratterizza in questa fase l’azione del governo. Ma quel che spicca con più evidenza nel segnare il cambio di passo consumato in quest’ultimi giorni è la vera campagna mediatica che accompagna e sostiene la misura di tassazione eccezionale degli extraprofitti delle banche. Non si vuole mettere in discussione l’opportunità (ineludibile) di un doveroso intervento teso a riequilibrare le distorsioni intervenute nei conti degli italiani. Si vuole solo attirare l’attenzione sul tipo di intervento e sulla gestione della misura adottata. Tra lo statista e il demagogo corre una differenza. Il primo è il politico che sa adottare misure impopolari nell’immediato, ma proficue nel lungo periodo. Il secondo è il politico che si preoccupa di riscuotere consenso nell’immediato, trascurando i costi dell’operazione nel più lungo periodo. Difficile ovviamente stabilire in anticipo costi e vantaggi del decreto sugli extraprofitti delle banche. Spiccano però due dati. Il primo: la dissonanza tra i fini e i mezzi. L’intervento dovrebbe procurare 2/3 miliardi una tantum. Non poco, ma nemmeno un granché per le sofferenti casse dello Stato. In compenso, non si sono valutati i costi: redditività delle banche; reputazione; affidabilità del governo; fiducia degli investitori; costo di finanziamento del debito pubblico.

Fermiamoci qui, senza entrare nel merito dei problemi sollevati dalla misura adottata. Veniamo al punto due: le motivazioni. Come per l’impianto del provvedimento varato, emerge nelle ragioni addotte a sostegno della tassazione sugli extraprofitti delle banche la preoccupazione preminente di ricavare un vantaggio immediato a scapito di una strategia meditata sulle ripercussioni della misura adottata. Il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, suggeritore del provvedimento, riduce il tutto ad un’azione punitiva nei confronti di uno dei meno amati «poteri forti»: «Siamo l’unico governo che ha avuto la forza di tassare le banche». Insomma, novello Robin Hood che toglie ai ricchi per dare ai poveri. Ma per dare cosa? Salvini, altro entusiasta sostenitore del provvedimento, promette un sostegno ai titolari di un mutuo, non solo, anche un sollievo fiscale a famiglie e imprese oltre che nientemeno che un finanziamento per rendere strutturale la riduzione, ad oggi solo temporanea, del cuneo fiscale.

Troppo con così poco. La tassazione delle banche è un prelievo - si diceva - una tantum mentre il sostegno finanziario che dovrebbe assicurare è a misure stabili. Dopo aver giurato di essere contrario alla tassazione, il governo approva una patrimoniale retroattiva, scatenando la fantasia della nutrita schiera degli emuli dello sceriffo di Nottingham. Perché - ci si chiede a destra e a sinistra - non tassare anche gli extraprofitti dei petrolieri, avvantaggiatisi dell’aumento del costo del petrolio? E perché non i farmaceutici, ingrassatisi con i vaccini anti Covid? E dire che la Meloni era favorevole a detassare gli aumenti di reddito per incoraggiare la crescita economica.

È partita la corsa a lusingare gli elettori con misure che assicurino un facile consenso con promesse difficili però da realizzare. Il populismo, da noi, gode sempre di un fascino irresistibile.

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