La ferita rimossa di Srebrenica

MONDO. Il giorno più infame fu il 14 luglio, quando in poche ore oltre mille adulti e ragazzi (il più giovane aveva 13 anni) furono fucilati uno a uno in un capannone agricolo, i corpi occultati in fosse comuni.

Venerdì 11 luglio ricorre il 30° anniversario del genocidio di Srebrenica: dall’11 al 22 luglio 1995 le milizie serbo-bosniache del generale Ratko Mladić e le brutali «Tigri di Arkan» serbe uccisero 8.372 bosniaci musulmani fra i 12 e 75 anni. La città era stata dichiarata «zona protetta» dall’Onu il 6 maggio 1993, con due risoluzioni, insieme all’assediata Sarajevo, condizione da garantire all’occorrenza anche con l’uso della forza dei soldati dell’Unprofor, presenti nella città bosniaca poi martirizzata con un contingente di 600 caschi blu olandesi.

La storia di quei giorni

Proprio alla vigilia della barbarie però i comandi locali dell’Onu ricevettero l’ordine di ritirarsi lasciando Srebrenica in mano agli aguzzini che avevano promesso la protezione dei civili. Invece separarono donne, anziani e bambini giustiziando uomini e ragazzi. Il primo gruppo lasciò la città in autobus, in 15mila invece si misero in cammino lungo un percorso di 100 km fra i boschi per raggiungere il territorio libero nei pressi di Tuzla: 8mila furono uccisi. Le richieste di un intervento aereo per scongiurare il massacro partite dall’Unprofor furono ignorate dai governi occidentali (francese, britannico e statunitense) che scelsero la neutralità in vista di un accordo di pace, firmato poi a Dayton, negli Usa, il 14 dicembre 1995: avrebbe consegnato Srebrenica alla Repubblika Srpska di Bosnia, la stessa che ancora oggi nega il genocidio e vuole secedere da Sarajevo, appoggiata dal Cremlino.

Dalla fine della guerra, 30 anni fa, in Bosnia sono state ritrovate 3mila fosse comuni e mancano all’appello ancora 7.601 persone, un migliaio proprio da Srebrenica

Per la mattanza e per gli stupri di massa furono condannate 21 persone, fra le quali all’ergastolo Mladić e Radovan Karadzić, lo psichiatra allora presidente della «Srpska»: ma gli esecutori materiali dei crimini sono rimasti liberi. Anche in Serbia a distanza di 30 anni vige il negazionismo della strage e la glorificazione dei responsabili perché non c’è stato un processo politico e sociale di riconoscimento delle responsabilità e di riconciliazione con le comunità che hanno pagato il prezzo umano più immane. Dalla fine della guerra, 30 anni fa, in Bosnia sono state ritrovate 3mila fosse comuni e mancano all’appello ancora 7.601 persone, un migliaio proprio da Srebrenica. L’anno scorso l’Assemblea generale dell’Onu ha votato una risoluzione che dichiara l’11 luglio «Giorno internazionale della riflessione e della commemorazione del genocidio del 1995 a Srebrenica»: 84 Stati a favore, 19 contro (fra i quali Russia, Cina e Ungheria) e 68 astenuti.

Dopo l’invasione dell’Ucraina su larga scala, avviata da Mosca nel famigerato 24 febbraio 2022, rappresentanti di importanti istituzioni pubbliche italiane hanno dichiarato che la nuova aggressione ha segnato il ritorno della guerra in Europa dopo 80 anni: affermazione grave perché omette gli orrori degli anni ’90 nei Balcani che fanno parte del nostro continente. Eppure la ferita di Srebrenica fu un monito segnando il ritorno al potere dei nazionalismi suprematisti nella versione più barbara, con consensi anche in Occidente perché considerati dagli sbandati ideologici barriera all’Islam.

Il dolore infinito e disumano

Viviamo in un’epoca di disumanizzazione crescente e di conflitti che fanno strame anche del diritto umanitario internazionale. In Ucraina gli eccidi di Bucha e di Mariupol, la russificazione forzata nei territori annessi da Mosca, il trasferimento a forza in Russia di migliaia di minori ucraini. Il progrom di Hamas il 7 ottobre 2023 in Israele, la vendetta annunciata e realizzata di Benjamin Netanyahu sulla Striscia di Gaza con stragi quotidiane nei bombardamenti incessanti e l’uso della fame come arma di guerra (la Corte internazionale di giustizia dell’Onu è stata chiamata dal Sudafrica a pronunciarsi se è in corso un genocidio), i vasti crimini sui civili pure in Sudan e Congo. Bisognerà pur trovare una risposta a tutto questo male, nuovi strumenti che impediscano di ridurre la vita umana a target, che pongano limiti invalicabili. Sarebbe il vero progresso. Anche nei Balcani tutto iniziò dalle parole, il linguaggio della politica e dei mezzi di comunicazione inquinato dall’odio e dalla negazione della dignità e dei diritti di altre comunità, così sdoganandolo nel dibattito pubblico. Un monito anche per noi: la violenza fisica è preceduta sempre da quella verbale.

Il direttore del Memoriale di Srebrenica, Emir Suljagić, ha ricordato: «Quando uscimmo vivi dai boschi della Bosnia orientale, nel luglio del 1995, nessuno ci credette. Le nostre storie erano troppo orribili per essere accettate. Per anni abbiamo dovuto dimostrare ogni singolo dettaglio, centimetro dopo centimetro, osso dopo osso. Ma l’abbiamo fatto. Non solo per stabilire i fatti, ma per difendere la nostra umanità». Un compito urgente è proprio la difesa dell’umanità, delle persone, anche nello sguardo e nelle parole.

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