
(Foto di Ansa)
MONDO. Solo Donald Trump poteva infliggere il ko definitivo al programma nucleare iraniano. E così è stato. Gli Stati Uniti sono l’unica potenza al mondo dotata di armi capaci di radere al suolo, in modo chirurgico, siti sotterranei o complessi come quelli di Fordow, Natanz e Isfahan.
Finora la centrale atomica di Bushehr è stata risparmiata da qualsiasi azione militare dopo l’appello disperato lanciato dal capo dell’Aiea, Rafael Grossi: lì il pericolo di provocare un disastro nucleare è infatti troppo grande. L’unico aspetto che sorprende è semmai che pubblicamente Trump si era preso «due settimane di tempo» per decidere cosa fare, mentre la diplomazia internazionale era impegnata in febbrili colloqui per riaprire un negoziato ormai logoro. Ed invece, in meno di 48 ore, il «tycoon» - che voleva farsi candidare al premio Nobel per la pace per aver concluso le guerre «altrui» in cui l’America era «impelagata» - ha impartito l’ordine d’attacco. Chissà, qualcuno gli avrà mica detto che rischiava di fare la stessa figura da «debole» di Barack Obama (da lui profondamente detestato) in Libano nell’autunno 2013? Proprio al summit del G20 di San Pietroburgo di quell’anno Vladimir Putin comprese che gli Stati Uniti non avrebbero mosso un dito in caso di «disordini» nello spazio ex sovietico, leggasi Ucraina. Sappiamo, purtroppo, come è andata poi a finire ad Est qualche mese dopo.
Trump si era preso «due settimane di tempo» per decidere cosa fare. Ed invece, in meno di 48 ore, il «tycoon» ha impartito l’ordine d’attacco
Invero, in Iran, era «sleepy Joe» (Biden) - definizione dell’attuale presidente Usa - che avrebbe dovuto fare sei mesi fa questo lavoro sporco, secondo gli addetti ai lavori più addentro a tali questioni. È toccato, invece, all’isolazionista Trump, che si è rimangiato in poche ore la parola - data e ripetuta per mesi - ai suoi elettori Maga, «Make America great again», coloro che vogliono chiudersi all’esterno e godersi le proprie ricchezze. In queste ore ha avuto un bel daffare il vice presidente JD Vance a spiegare alla propria sbigottita opinione pubblica che gli Stati Uniti non sono in guerra con l’Iran, ma gli ayatollah hanno già gridato alla vendetta contro gli americani. Cosa farà ora Trump se gli iraniani e i loro «proxy» dovessero iniziare a colpire gli interessi Usa nel mondo? La palla, come si suole dire in questa epoca turbolente, è nel campo di Teheran. Solo i «vecchi» europei potrebbero tentare di riportare un po’ di ragione o saggezza nel presente confronto. A meno che Trump e Netanyahu non decidano di tentare il colpo grosso, ossia assestare una spallata definitiva al già barcollante regime degli ayatollah. La Guida suprema Khamenei parla già da ex, dopo aver scelto il suo probabile successore. Ma come potevano pensare di farla franca questi leader dopo aver costituito la «mezza Luna sciita» - a Gaza, in Libano, in Siria, in Yemen - con gli Houthi che hanno osato sparare addosso al naviglio in transito nel Mar Rosso, provocando danni enormi all’intero commercio internazionale e con Teheran che potenzialmente può chiudere lo strategico stretto di Hormuz, da dove passa il 30% del petrolio mondiale?
Indirettamente quanto sta accadendo è un avvertimento a Pechino e alle sue interpretazioni dei dissidi marittimi nel Mar Cinese meridionale. La lezione è una: storicamente prima i britannici poi gli americani armano le loro cannoniere se qualcuno mette in pericolo il commercio internazionale. Poi figurarsi se si parla di armi atomiche. È difficile farla franca. Questo è un monito anche a Putin, che - a poche ore dall’attacco Usa - difendeva ancora il diritto dell’Iran (che ha l’obiettivo ufficiale di «cancellare lo Stato di Israele») «di avere il nucleare civile». Risulta difficile pensare, dopo quanto è accaduto, che gli si permetterà di continuare a perdere tempo prima di arrivare al cessate il fuoco in Ucraina. «L’Ucraina che è tutta nostra, russa» ha affermato il capo del Cremlino. Dopo poche ore, su richiesta Usa il «fratello» bielorusso Aljaksandr Lukashenko - eterno alleato di Putin - ha clamorosamente liberato 14 dissidenti, tra i quali il potenziale futuro suo successore Serghej Tikhanovskij se Minsk abbandonasse l’alleanza con Mosca. Lukashenko, forse, non vuole che il suo Paese torni ad essere una provincia della Russia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA