La guerra di Gaza, tra moniti e inerzia

Un appello dall’Europa per il cessate il fuoco, dal quale si è dissociata l’Ungheria. Lo stesso lanciato ai contendenti dalle Nazioni Unite e dagli Usa. Si ripete così il classico canovaccio di ogni escalation del conflitto israelo-palestinese. Tra le micce questa volta ci sono state nelle scorse settimane la chiusura della Porta di Damasco e lo sfratto da 15 case di arabi da parte di coloni ebrei a Gerusalemme Est. Ne sono seguiti anche scontri con la polizia nella Spianata delle Moschee, terzo luogo di culto per i musulmani dopo la Mecca e Medina. La novità di questa escalation sono gli scontri innescati da estremisti ebrei con cittadini arabi in Israele, mai avvenuti in passato e per questo molto preoccupanti. La minoranza, vicina ai due milioni di persone, rappresenta il 20,95% della popolazione dello Stato ebraico. A Gerusalemme sono i due quinti degli abitanti. Israele è definito la sola democrazia in Medio Oriente.

Se questo è vero dal punto di vista del funzionamento istituzionale, non lo è per gli arabi: soffrono di disuguaglianze socio-economiche e di discriminazioni nel mercato del lavoro, nell’offerta di istruzione, nella disponibilità di terreni per le abitazioni; una parte di loro ( beduini) vive in villaggi non riconosciuti dal governo, nel deserto del Negev o in Galilea, privi di accesso all’acqua e all’elettricità. Diverse ong israeliane denunciano da tempo la gravità della situazione. La legge dello «Stato-nazione» approvata nel 2018 codifica inoltre uno status privilegiato agli ebrei, definendo Israele «Stato-nazione del popolo ebraico» e disconoscendo il fatto che c’è un altro gruppo che non può influire sul carattere del Paese i cui membri (arabi) sono cittadini con pari diritti individuali, ma non collettivi di minoranza nazionale.

L’altra novità dell’escalation riguarda l’utilizzo da parte dell’organizzazione terroristica Hamas (nello statuto prevede la distruzione di Israele) grazie al know how messo a disposizione dall’Iran, di missili ormai capaci di raggiungere Gerusalemme e Tel Aviv da Gaza, come successo in questi giorni. I razzi lanciati contro lo Stato ebraico sono stati finora 3.440, intercettati al 90% dal sistema di protezione «Iron Dome». Quelli andati a segno hanno provocato 14 morti fra gli israeliani; i cacciabombardieri con la Stella di Davide, sganciando le potentissime bombe a guida satellitare, grazie al supporto economico del Pentagono, hanno fin qui ucciso a Gaza 212 persone tra cui 61 bambini, 36 donne e 16 anziani. I feriti sono 1.400, gli sfollati che hanno perso la casa già 10 mila. La Striscia è l’area più densamente popolata al mondo. Due milioni di persone sopravvivono in 360 chilometri quadrati: 5mila abitanti per chilometro quadrato. Anche la più «chirurgica» delle bombe in tale vespaio non può fare a meno di colpire innocenti. Se l’obiettivo è Hamas, non si capisce perché ieri è stato distrutto l’unico laboratorio per i test Covid (eseguiva 1.600 tamponi al giorno, 9 mila i contagiati dall’inizio dell’escalation) e prima ancora sia stata danneggiata la clinica di Medici senza frontiere a Gaza city, che fornisce trattamenti per traumi e ustioni, o distrutto il palazzo dell’informazione, sede anche di testate giornalistiche occidentali: Israele sostiene che vi si nascondeva l’intelligence di Hamas, gli Usa hanno chiesto le prove ma non sono ancora arrivate. Ne ha una spiegazione che dalla Striscia, definita una prigione a cielo aperto perché nessuno può uscire se non per gravi motivi, anni fa fu negato il transito verso la Cisgiordania all’allora parroco della comunità locale (che oggi conta 133 cattolici, mentre i cristiani sono un migliaio) per partecipare ai funerali della madre.

Il conflitto israelo-palestinese è di difficile soluzione perché è una contesa fra due diritti: quello del Paese ebraico a vivere in pace e in sicurezza, quello dei palestinesi ad avere uno Stato. Il più recente tentativo di comporlo risale al 2014 quando l’allora Segretario di Stato Usa, John Kerry, sotto la presidenza Obama, gettò la spugna davanti ai veti incrociati del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del presidente palestinese Abu Mazen: il primo contrario a smantellare completamente gli insediamenti in Cisgiordania e il secondo a rinunciare del tutto al diritto al ritorno dei profughi palestinesi nei territori assegnati dall’Onu a Israele con la spartizione del novembre 1947. Oggi la Cisgiordania è una sorta di bantustan, senza continuità territoriale: circa 430 mila ebrei vivono in 132 colonie riconosciute ufficialmente e in 121 avamposti non ufficiali che hanno richiesto l’approvazione del governo israeliano. Uno stato di fatto difficilmente modificabile, nonostante il diritto internazionale preveda che una potenza non possa alterare la geografia di un territorio occupato. Ma per lo Stato ebraico quella terra non è occupata bensì contesa. Inoltre gli ultimi governi sono stati molto influenzati dalla destra estrema: di quella laica fa parte un ex ministro, Avigdor Lieberman, leader del partito «Israel Beytenu», che professa la deportazione dei palestinesi in Giordania, mentre quella religiosa ultraortodossa considera la Cisgiordania Terra promessa da Dio e quindi irrinunciabile.

Fino agli anni ’90 la guerra non aveva connotati religiosi. La nascita di Hamas è del 1987, mentre il 4 novembre 1995 venne ucciso da un estremista ebreo Yitzhak Rabin, il premier israeliano che tentò seriamente un percorso verso la pace. L’Autorità palestinese ha una leadership anziana e in parte inetta, messa nell’angolo dalla violenza degli islamisti. La comunità internazionale pare rassegnata e distratta. Al punto di concedere attraverso la Fifa i Mondiali di calcio del 2022 al Qatar, finanziatore di Hamas insieme all’Iran.

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